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Discussione: Perché si dice...

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    Predefinito Perché si dice...



    ACCETTARE UNA COSA CON BENEFICIO D'INVENTARIO


    Accettare qualcosa (una notizia, un'informazione, una proposta), riservandosi di controllarne la fondatezza o la validità.

    L'espressione deriva dal linguaggio giuridico e riguarda l'accettazione dei beni ereditati, da parte dell'erede, con riserva di decidere se tenerli o meno, dopo aver fatto l'inventario del patrimonio, in modo da evitare brutte sorprese, quali potrebbero essere tasse troppo onerose oppure debiti che il caro estinto ha contratto gravando di ipoteche i propri beni, eccetera, per cui chi eredita potrebbe trovarsi nella situazione di dover spendere cifre superiori all'importo dei beni ereditati.



    ACQUA ALLE CORDE


    Nel 1586, per ordine di papa Sisto V, l'architetto Domenico Fontana doveva innalzare sull'apposito piedistallo l'obelisco che oggi si ammira al centro di piazza S. Pietro, a Roma. Era un'operazione che richiedeva la massima concentrazione e il massimo silenzio, quindi, per evitare confusione, il papa aveva fatto emanare un editto che vietava a chiunque non fosse addetto ai lavori di entrare nel recinto o semplicemente di parlare. Bastava già il parapiglia creato dai 140 cavalli e dagli 800 uomini impiegati nei lavori. I trasgressori agli ordini del papa sarebbero stati impiccati seduta stante, e, per l'occasione, all'interno del recinto il bargello e i suoi sbirri avevavno retto il patibolo. Secondo la tradizione un certo Bresca, di Sanremo, capitano di un bastimento genovese, si accorse a un dato punto che le corde che reggevano il monolito tendevano ad allungarsi a causa dell'eccessivo peso e quindi avrebbero finito col rompersi, provocando la distruzione dell'obelisco. Quindi, incurante dell'editto papale, si mise a gridare: "Acqua alle corde!" (per l'esattezza, come narra Daniele Morchio, Aiga, dai de l'aiga ae corde). Da buon marinaio, sapeva che la canapa, bagnata, si restringe e si accorcia. L'architetto, per fortuna, dette immediatamente l'ordine di bagnare tutte le corde, e così l'operazione fu felicemente condotta a termine. Inutile dire che invece di essere impiccato, il Bresca ricevette, insieme agli elogi papali, anche consistenti privilegi, tra cui una lauta pensione mensile, estensibile ai discendenti, il titolo di capitano del primo reggimento di linea pontificio, con l'autorizzazione a portarne la divisa e a innalzare la bandiera pontificia sul suo bastimento.



    ACQUA IN BOCCA


    Tacere accuratamente su qualcosa, conservare bene un segreto.

    Si racconta che all'origine di questo detto ci sia una geniale trovata di un confessore. Una donna molto devota, ma afflitta da un ostinato vizio di maldicenza, gli si rivolse chiedendo un aiuto drastico. Le preghiere non servivano, i buoni propositi al momento sfumavano. E il fantasioso guaritore d'anime offrì alla donna il suo rimedio empirico: le diede infatti una boccetta d'acqua di pozzo e le suggerì di metterne due gocce sulla lingua ogni volta che si fosse sentita la voglia di dire peste di qualcuno. E poi tenere solo la bocca ben chiusa, finché la tentazione non fosse passata. Funzionò, probabilmente.




  2. #2
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    AD USUM DELPHINI


    Preparare qualcosa (un testo, una relazione) modificando la sua forma originale, spurgandola o addirittura falsificandola, per raggiungere un determinato scopo.

    Il duca di Montausier, nominato da Luigi XIV, nel 1668, governatore del Delfinato, diede l'incarico a due religiosi dell'epoca, Bossuet e Huet, di sfrondare (sarebbe più esatto dire spurgare) tutta una serie di classici latini destinati all'educazione del Delfino (erede al trono di Francia). Sul frontespizio di ognuna di queste opere c'era scritto In usum Delphini, con la variante, in pochi casi, Ad usum..., che però oggi è la versione universalmente adottata. Questi testi, stampati a Parigi, vennero anche usati in parecchie scuole, soprattutto in quelle gestite da religiosi.



    AL TEMPO CHE BERTA FILAVA


    In tempi antichi, molto lontani, quando le cose andavano in un certo modo.

    Fra le varie versioni, numerosissime in verità, sull'identità di questo misterioso personaggio, quelle che sembrano riscuotere maggior credito indicano Berta come madre o sorella di Carlo Magno. La donna, in un certo periodo della sua vita, a causa di una serie di disavventure, per potersi guadagnare da vivere, si mise a filare. L'espressione, quindi, può indicare che è finito un periodo nero, ma anche, in senso più generico, che si è chiusa un'epoca e ne è iniziata un'altra completamente diversa.



    ANDARE A CANOSSA


    Chiedere umilmente perdono, sottomettersi nel modo più incondizionato.

    Il castello di Canossa, nei pressi di Reggio Emilia, all'epoca delle lotte per le investiture, fu teatro dell'umiliazione di Enrico IV, re di Germania, poi imperatore, davanti a papa Gregorio VII, che lo aveva scomunicato. Prima di essere ammesso alla presenza del pontefice, il re dovette attendere tre gioirni, poi ottenne il perdono per intercessione della padrona di casa, la contessa Matilde. Cinque anni dopo, nel 1081, il re si vendicò togliendo alla contessa tutti i suoi diritti e gran parte dei beni. La frase Andare a Canossa venne usata per la prima volta da Emilio Castelar, presidente della Repubblica di Spagna, verso la fine dell'Ottocento, stando a quanto asseriva lo stesso presidente. Castelar doveva provvedere ad alcuni vescovadi vacanti, per cui si mise d'accordo con il papa circa le nomine. Bismarck, che non condivideva l'atteggiamento di Castelar, gli indirizzò una lettera di rimprovero, cui il presidente spagnolo rispose che il suo comportamento era determinato dal fatto che lui doveva tener conto, nelle sue scelte, della religione dominante nella sua nazione, e concludeva: Anche voi andrete a Canossa. Va fatto rilevare,però, che Castelar ricoprì la sua carica dal 9 settembre 1873 al 2 gennaio1874, mentre molto tempo prima, Bismarck, all'epoca del conflitto tra il Secondo Reich e la Chiesa cattolica, ebbe a dire, per esprimere il suo pensiero: Nach Canossa gehen wir nicht! (Noi non andremo a Canossa!).




  3. #3
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    ANDARE A MONTE


    Veder fallire un progetto, concludere un'operazione con un nulla di fatto, non risolvere una situazione.

    Le ipotesi circa le origini di questa locuzione sono parecchie. La più probabile si rifà al gioco delle carte, in cui il mazzo dal quale si "pesca", come nella briscola, tressette, scopa, eccetera, viene definito "monte", per cui, in caso di errore o di disaccordo, si rimescolano le carte e si costituisce un nuovo monte. Un'altra versione vuole che la frase risalga all'epoca in cui con il nome di monte si indicava l'insieme di debiti che una pubblica istituzione assumeva nei confronti dei risparmiatori che le affidavano i propri capitali, in cambio di una rendita vitalizia. Chi si assumeva questi debiti fruttiferi, in genere, era lo Stato o il Comune, e allora andare a monte significava essere descritto per creditore nei Libri del Monte. Una versione più recente, piuttosto cattivella, si riferisce alla situazione di chi, avendo bisogno di un prestito, si rivolge al Monte di Pietà o a una banca e si sente dire che non può ottenere prestiti se non offre solide garanzie, il che equivale a dire "non ne facciamo niente".



    AUDACES FORTUNA IUVAT


    La fortuna aiuta gli audaci.

    Questa antica massima è tratta dall'Eneide di Virgilio, libro X. Nell'originale, il poeta aveva scritto Audentes fortuna iuvat, ma in seguito prevalse l'uso della parola audaces, forse per la somiglianza con l'analoga voce neolatina.



    AVERE IL BERNOCCOLO DI QUALCOSA


    Essere naturalmente predisposti per una determinata materia, arte, scienza, eccetera.

    La locuzione deriva da una teoria avanzata da F.J. Gall, nel Settecento, secondo cui ogni zona del cervello sarebbe sede di una funzione psichica diversa. Ora, dalla conformazione del cranio, in base allo sviluppo più o meno accentuato di una determinata zona, si dovrebbe poter determinare la predisposizione della persona verso la disciplina che è regolata dalla funzione psichica che ha sede nella zona in questione. La fantasia popolare, sempre pronta a dare forme e contorni ben precisi a ogni cosa, ha "visualizzato" queste zone, pretendendo che fossero evidenti come bernoccoli. Da qui il nostro modo di dire, che è anche l'equivalente di: Essere tagliato per qualcosa.




  4. #4
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    BUTTARE POLVERE NEGLI OCCHI


    Produrre un annebbiamento della vista con illusioni e falsità, fare in modo che altri non s'accorgano di qualcosa che conviene tenergli nascosto.

    C'è il detto latino: Pulverem oculis offundere. Nella corsa a piedi, il corridore che nello stadio precedeva gli altri, con la polvere che sollevava offuscava la vista di quelli che lo seguivano, mentre lui vedeva nettamente la distanza che lo separava dalla meta.



    CAPIRE L'ANTIFONA



    Intendere il succo di un discorso pur velato da parole caute ed esitanti, afferrare un'allusione, un avvertimento nascosto, un'intenzione non apertamente dichiarata.

    Nella liturgia cristiana, l'antifona è una breve frase recitata o cantata prima e dopo il salmo, e talvolta fra i versetti dello stesso, che ne riassume il senso o gli conferisce particolare significato secondo la festa o il momento liturgico per il quale si usa. C'è anche il detto: E' più lunga l'antifona del salmo, per significare che è più lunga la premessa del discorso.



    CASTIGAT RIDENDO MORES



    Corregge i costumi ridendo.

    Questa frase venne coniata dal letterato francese Jean de Santeuil (1630-1697) per un attore italiano, Domenico Biancolelli, superbo interprete della maschera di Arlecchino. Il Biancolelli era stato chiamato in Francia, con tutta la sua compagnia di comici, dal cardinale Mazzarino, e in tale occasione desiderava che Santeuil inventasse per lui un motto da incidere sotto un suo busto. Ma il letterato non era tanto propenso. Allora Biancolelli andò a trovarlo a casa, vestito da Arlecchino, e interpretò per lui uno dei suoi pezzi più forti, una satira sui costumi dell'epoca, strappando al Santeuil alacri risate, e un breve commento a tanta bravura, che uscì spontaneamente dalla bocca del letterato: Castigat ridendo mores. La frase, che piacque tanto al Biancolelli, oltre a essere incisa sotto il suo busto, divenne il motto dei due teatri parigini, la Comédie Italienne e l'Opéra Comique, e in seguito venne scritta sulla volta del teatro napoletano San Carlino, fondato nel 1770.




  5. #5
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    CHERCHEZ LA FEMME


    Cercate la donna.


    Questa frase è stata resa popolare da Alessandro Dumas padre, che la fa pronunciare a un poliziotto, Jackal, nel dramma Les Mohicans de Paris. Jackal, a un certo punto, dice: "In ogni affare c'è sempre una donna; quando i miei subordinati mi presentano un rapporto su un certo reato, io dico loro: Cherchez la femme! E infatti, una volta trovata la donna, non si tarda a scoprire il colpevole: l'uomo". Ma se Dumas ha reso popolare questa frase, non ne è certamente l'autore. Alcuni ne hanno attribuito la paternità a Fouché, ministro della polizia ai tempi di Napoleone, altri la fanno risalire a De Sartine, capo della polizia francese nel 1759, altri ancora l'attribuiscono all'abate Ferdinando Galiani, desumendola dal suo Dialogue sur les femmes. Ma le origini hanno radici molto più lontane nel tempo. Giovenale, nelle Satire scrive: Nulla fere causa est, in qua non femina litem moverit (Sat.VI, v.242-243) in poche parole, tutte le liti sono sempre originate da una donna. Ma, a voler essere più pignoli, già nella Bibbia si trova espresso più volte il concetto che è sempre la donna a condurre a perdizione l'uomo, anche il più saggio: Propter speciem mulieris multi perierunt (Eccl.,cap.IX, v.9). Se poi pensiamo al famoso episodio della mela, tra Adamo ed Eva, nel Paradiso terrestre, il gioco è fatto.



    CHIUDERSI IN UNA TORRE D'AVORIO


    Indica la solitudine sdegnosa e aristocratica di chi si astrae dalla realtà per chiudersi nella contemplazione del suo mondo interiore.

    E' un'espressione biblica che si trova nel Cantico dei Cantici: collum tuum sicut turris eburnea; oculi tui sicut piscinae in Hesebon (Il tuo collo è una torre d'avorio, i tuoi occhi vasche di Hesebon). Fu riferita poi alla Madonna, che nelle litanie del Rosario è chiamata Turris eburnea. Per estensione, l'epiteto si riferisce a una donna di fiera inavvicinabilità.



    COMPRARE LA GATTA NEL SACCO


    Comprare qualcosa senza prima averne verificato la natura, in genere lasciandosi ingannare.

    Si tratta di una locuzione che deve trarre la propria origine da qualche antico episodio, senza dubbio menzionato nei classici, di cui ci sfugge l'autore. Un'espressione analoga, infatti, la troviamo nelle diverse lingue europee: Die Katze im Sacke kaufen - Acheter chat en poche - Comprar gato en saco. Una spiegazione plausibile la fornisce P.M.Quitard, nel suo dizionario dei proverbi. Pare che un cacciatore, dopo una giornata sfortunata, non volendosi presentare ai suoi amici senza selvaggina, si decidesse ad acquistare una lepre da un contadino. Questi gliela fornì in un sacco. Per la fretta, il cacciatore non esaminò la merce, ma quando, tornato a casa, dopo aver vantato la sua abilità nell'arte venatoria, aprì il sacco per mostrare a tutti il frutto delle sue prodezze, fece una colossale magra: nel sacco, invece della lepre, c'era un gatto. L'equivalente di questa espressione, coniata di recente, è: Comprare a scatola chiusa.




  6. #6
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    DARE A CESARE QUEL CHE E' DI CESARE


    Dare a ciascuno il suo, quel che gli spetta o s'è guadagnato. Ma anche non dare più di questo, non quello che spetta ad altri.

    La frase è tolta dal Vangelo, Luca 20, 20: Essi (gli Scribi e i capi dei Sacerdoti) non lo perdettero di vista e mandarono insidiatori, i quali si fingessero giusti per sorprenderlo in fallo durante i discorsi, e poterlo dare in mano delle autorità e in balìa del governatore. Costoro lo interrogarono: "Maestro, sappiamo che tu parli e insegni rettamente e non guardi in faccia nessuno, ma insegni la via di Dio con verità. E' lecito a noi pagare il tributo a Cesare, o no?" Egli, conoscendo la loro astuzia, rispose: "Perché mi tentate? Mostratemi un denaro. Di chi è l'immagine e l'iscrizione?" Gli risposero: "Di Cesare". "Rendete dunque" soggiunse loro "a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio."



    DARE IL CALCIO DELL'ASINO


    Insultare, quand'è in una condizione da non poter più nuocere, un potente che ci si è umiliati ad adulare.

    Si dice di ogni vile vendetta del debole contro il potente caduto. Racconta la favola di Fedro: Chi perde il suo potere, anche il più vile si prende gioco della sua rovina. Tradito dalle forze e dall'età il leone covava la sua fine. A vendicarsi d'un'antica offesa venne il cinghiale dal fulmineo dente; poi venne il toro, e le sue corna ostili scavarono in quel corpo di nemico; l'asino vide i colpi non puniti e gli sferrò il suo calcio nella fronte. Il leone spirò. Ma prima disse: "Amaro fu l'assalto di quei forti. Ma dopo il tuo, viltà della natura, mi sembra di morire anche due volte".



    DE GUSTIBUS NON EST DISPUTANDUM


    Sui gusti non si discute.

    Comunemente si crede che questa frase provenga dai classici latini; qualcuno, in passato, l'attribuiva addirittura a Cicerone. La grossolanità della frase non ha niente a che vedere con la finezza d'espressione dei nostri classici e nessuno mai, a quell'epoca, si sarebbe sognato di aggiungere quell'est così pleonastico, limitandosi, semmai, a dire: De gustibus non disputandum. La massima, quindi, deve senz'altro far parte di quel linguaggio aulico tanto caro ai dotti medioevali, che poi è rimasto in vigore nel linguaggio giuridico e appartiene a quel bagaglio di modi di dire, che vanno dal latino maccheronico, tipo Gratatio capitis facit recordare cosellas (Il grattamento di testa fa ricordare le cose spicciole) e Non est de sacco ista farina tuo (Questa non è farina del tuo sacco), a frasi ancora oggi usate nelle aule di giustizia, come Testis unus, testis nullus (Un solo testimone non è attendibile) e De minimis non curat praetor (Il pretore non tiene conto delle cose molto piccole).




  7. #7
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    DEUS EX MACHINA


    Rappresenta qualcuno o qualcosa che interviene a risolvere una situazione apparentemente senza via d'uscita, o qualcuno che manovra una determinata situazione politica, economica o d'altro genere.

    L'espressione si fa derivare dall'antico teatro greco, quando, nel corso della rappresentazione, stava per accadere la "catastrofe", cioè la situazione si era talmente compromessa che non c'era via di scampo. Allora si faceva calare sulla scena un dio, per mezzo di un meccanismo azionato dalle quinte e, con il suo intervento, la divinità risolveva i guai dei poveri mortali.


    DO UT DES


    Dò perché tu dia.

    Si usa per indicare accordi in cui i reciproci vantaggi press'a poco si equivalgono. O come per enunciare la legge che ogni dare umano pretende ed è soggetto a un compenso. In tempi antichissimi, quando non esisteva ancora la moneta, tutto il commercio si svolgeva secondo queste quattro formule: do ut des (ti dò la mercanzia, perché tu me ne dia un'altra di genere diverso); do ut facias (ti dò mercanzia, perché tu lavori per me); facio ut facias (lavoro per te, perché tu lavori per me); facio ut des (lavoro, perché tu mi dia mercanzia).


    EMINENZA GRIGIA


    Colui che, agendo nell'ombra, consiglia qualche persona, in genere un capo, o dirige qualcosa.

    L'espressione deriva dal comportamento del cappuccino François Le Clerc du Tramblay, che senza mai apparire, era il potentissimo consigliere del cardinale Richelieu, del quale dirigeva anche i servizi d'informazione, dopo avere organizzato una rete efficiente di spie degne della migliore organizzazione spionistica moderna.




  8. #8
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    ESSERE COME LA MOGLIE DI CESARE


    Essere al di sopra di ogni sospetto.

    Attingiamo ancora una volta da Plutarco, Vita di Giulio Cesare, cap. 10. In occasione di una festa dedicata alla dea Bona, cui potevano partecipare soltanto le donne, Pompea, moglie di Cesare, accolse nella sua abitazione, dove si teneva appunto la festa, un suo spasimante, Publio Clodio, travestito da suonatrice. Ma l'inganno venne scoperto e Clodio scacciato via, poi trascinato in tribunale. Cesare, in quella occasione, venne citato come testimone, anche perché aveva ripudiato Pompea. Alla domanda del pubblico ministero, rispose che non conosceva personalmente Clodio e che non sapeva nulla delle sue malefatte. Il magistrato non sembrò convinto della risposta e pregò il dittatore di essere più chiaro. Al che, l'illustre testimone rispose: "La moglie di Cesare deve essere al di sopra di ogni sospetto". Ma, in effetti, non voleva pronunciarsi su Clodio per motivi prettamente politici.


    ESSERE COME L'ARABA FENICE


    Essere una rarità, un pezzo unico al mondo; ma anche qualcosa di introvabile.

    Ancora un'antica leggenda, che riguarda un misterioso uccello, esistito da sempre, immortale, bellissimo. Ne parla Erodoto nelle sue opere storiche, definendolo un uccello sacro, di nome Fenice, che appare circa ogni cinquecento anni, secondo quanto affermano i sacerdoti di Eliopoli. L'uccello è poi passato a rappresentare il simbolo della resurrezione e quindi dell'immortalità, perché, quando stava per morire, si costruiva un nido, che veniva incendiato dai raggi del sole, riducendo così in cenere anche l'uccello. Ma da queste ceneri la Fenice rinasceva più bella di prima.


    ESSERE COME L'EBREO ERRANTE


    Cambiare spesso casa, non trovare mai pace, andare sempre in giro.


    Questa locuzione deriva da una vecchia leggenda, ripresa da molte opere letterarie, da Goethe a Graf, e si riferisce a un episodio che si sarebbe verificato in occasione della passione e morte di Cristo. Mentre il Nazareno camminava verso il Calvario, chino sotto la pesantissima croce, a causa dell'eccessiva stanchezza si fermò per un breve istante e si appoggiò al muro di una casa. Ma il proprietario dell'abitazione, che probabilmente si stava gustando lo spettacolo, ritenne opportuno mostrarsi più crudele dei soldati romani, che avevano lasciato fare, ingiungendo a Cristo: "Cammina!". Sul suo capo cadde allora la maledizione divina: l'ebreo fu condannato a errare per il mondo, per tutta l'eternità, senza mai trovare pace, con in tasca soltanto cinque soldi, ritornando negli stessi posti ogni cinque anni.




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    ESSERE IL CAVALLO DI BATTAGLIA


    Si dice per indicare qualcosa che consente di fare sfoggio del proprio talento, come il pezzo preferito di un cantante, la recita di un attore, eccetera.

    I cavalli destinati a portare i cavalieri in guerra, quando ancora si combatteva con spade e corazze, erano particolarmente robusti, a causa dell'enorme fatica cui erano sottoposti. Perciò, oltre che a un'alimentazione speciale, erano anche soggetti a un particolare addestramento, che non era necessario per la caccia o altro uso dell'animale. E in genere, il cavallo cui era demandato questo compito, dalla cui bravura e robustezza spesso dipendeva la vita del cavaliere, era il più forte, il più intelligente, il preferito della scuderia. Da qui anche l'espressione: Essere il pezzo forte.


    ESSERE POVERO IN CANNA


    Essere in miseria, non avere neanche di che vivere.

    La locuzione, molto usata nella nostra lingua, ha origine incerta. Secondo quanto si legge nel "Vocabolario della lingua italiana" del Manuzzi, pare che si voglia alludere all'interno di una canna, completamente vuoto, per dire che non si possiede proprio niente. Dal dizionario del Rezasco, invece, si apprende che le dame e i cavalieri antichi portavano in mano un piccolo globo e una canna, che poi collocavano sulla torre più alta di un castello, per manifestare tutto il proprio dolore in seguito a un triste avvenimento. La canna, comunque, nella simbologia di tutti i tempi, è sempre associata all'idea della privazione, del dolore. Anche nel Vangelo (Matteo XXVII, 28-30) si legge che Cristo venne spogliato, poi coperto con un manto scarlatto. Quindi gli calcarono una corona di spine in testa e nella mano destra gli misero una canna che di tanto in tanto gli toglievano e che usavano per picchiarlo.


    ESSERE SOTTO L'EGIDA DI QUALCUNO


    Godere della protezione di una persona, o delle leggi, eccetera. Più esteso, sentirsi al sicuro, essere al riparo da ogni male.

    Nella mitologia greca, Zeus (Giove per i romani) aveva uno scudo che veniva usato dalla dea Atena (Minerva) nelle battaglie. Lo scudo era invulnerabile e quindi una sicura protezione. Era ricoperto dalla pelle della capra Amaltea, che aveva allattato Zeus da bambino. Con quella pelle, il dio si era coperto il corpo per combattere contro i Titani, poi aveva rivestito il suo scudo, l'egida, appunto, che Atena aveva arricchito con la testa della Gorgone, di cui si serviva per impietrire i nemici. Con lo stesso significato si usano le locuzioni Dormire in una botte di ferro, Avere santi in paradiso.




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    ESSERE UN ALTO PAPAVERO


    Essere un'autorità, in qualunque settore, uno che conta.

    Oggi questa locuzione ha perso parte del suo vero significato. Un tempo, con il termine alto papavero veniva indicata un'alta personalità che cominciava a dar fastidio, in qualche modo, e che era destinata a sparire dalla circolazione. Tito Livio (Ab Urbe condita, I, 54) racconta che Sesto, figlio di Tarquinio il Superbo, settimo e ultimo re di Roma, era fuggito dall'Urbe, fingendo di essere perseguitato dal padre, ma in effetti era partito in missione segreta, come diremmo oggi, per raccogliere informazioni sui nemici, ed era riuscito a diventare l'uomo più potente di Gabii, una città ostile a Roma. Trovandosi in difficoltà, Sesto mandò un messaggero dal padre per chiedere consiglio, e Tarquinio, senza dare una risposta precisa, condusse il messo nei giardini della reggia, dove, servendosi di un bastone, decapitò i papaveri più alti, quelli cioè che cominciavano a spargere ombra sugli altri fiori. Il messaggero non capì l'allusione, ma Sesto, degno figlio del padre, afferrò l'antifona e fece decapitare i più importanti cittadini di Gabii. Oggi, comunque, la locuzione "alto papavero" indica un personaggio influente, che ricopre un'alta carica, senza alludere a una sua eventuale eliminazione.


    ESSERE UN ALTRO PAIO DI MANICHE


    Si dice quando una situazione ci si presenta diversa da come ci era stata prospettata.
    Secondo il Giacchi, questa espressione risale all'abitudine di certi appartenenti alle classi meno abbienti, di cambiare le maniche consunte dei loro vestiti, in modo da dare l'impressione di indossare capi di abbigliamento nuovi. Più verosimile invece la versione del Quitard, secondo cui una volta i fidanzati, quando si scambiavano i doni, includevano fra gli oggetti più disparati anche un paio di maniche di camicia, come pegno della propria fedeltà. Ma, quando si rompeva il fidanzamento, i regali dovevano essere restituiti. Però a volte capitava che l'uomo, o la donna, si vedeva restituire un paio di maniche diverse da quelle consegnate, appurando così che, tutto sommato, non aveva fatto poi tanto male a non sposare la persona che custodiva il pegno d'amore, in quanto quelle maniche (un altro paio) provenivano senza dubbio da un altro innmorato, quindi erano una prova d'infedeltà.


    ESSERE UN FRANCO TIRATORE


    Mandare a monte i progetti di qualcuno, approfittando dell'anonimato, senza manifestarsi apertamente.

    La locuzione è stata adoperata per la prima volta nel linguaggio politico, in Italia, nel 1951, in seguito a dissensi sorti in seno alla Democrazia Cristiana. Alcuni deputati, dovendo esprimere il loro voto a scrutinio segreto, invece di dimostrarsi a favore, come esigeva la disciplina di partito, votarono contro. L'espressione, comunque, deriva dal francese franctireur che forse prende origine dal tedesco Freischutze sta a indicare i tiratori scelti (cecchini) che agiscono separatamente dalle truppe regolari e tendono imboscate al nemico, appostati in luoghi ben nascosti.




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