Non è sicuramente una bella esperienza per nessuno, scoprire che su Facebook esiste una pagina dedicata, in cui qualcuno si chiede se sia il caso di ucciderti. È quello è capitato all’attivista e femminista Miri Mogilevsky , protagonista involontaria della pagina “Miri Mogilevsky be murdered?”.
Di storie come quella di Miri, purtroppo, ce ne sono tante; l’astio e la collera sono uno dei principali motori della comunicazione sui social network, come confermano diversi studi ; quello che è davvero inusuale è quello che nel suo caso è successo dopo.
La richiesta di rimozione della pagina, effettuata seguendo le procedure suggerite dal social network, non cade nel nulla. Ma la risposta che arriva non è quella sperata: “la pagina non viola i termini d’uso della piattaforma in materia di bullismo e molestie” afferma lo staff.
Ne segue, su Twitter, un acceso scambio di vedute con un impiegato di Facebook (che parla a nome proprio). Poi la pagina scompare, senza però che si riesca a capire come e perché. Lieto fine a parte, la vicenda spinge a interrogarsi, una volta di più, sui confini della libertà di espressione all’interno dei social network.
“La parte eclatante della storia – spiega l’imprenditore e attivista digitale Matteo Flora, che con la sua azienda The Fool si occupa di tutela della reputazione online – non è tanto la pagina in sé e per sé, quanto il fatto che in un primo tempo Facebook abbia risposto picche”. “Il sito – continua Flora – è prontissimo a rimuovere immagini di donne che allattano o altre in cui si vedono seni o simili, ma quando si tratta di questioni di diffamazione spesso noi siamo costretti ad agire per vie legali, per tutelare i nostri clienti”.
La questione è spinosa. Non si tratta qui di chiedere nuove leggi, ma di cercare di fare ordine in un settore molto delicato, al confine fra la libertà di espressione e l’insulto gratuito. “Anche l’utente più smaliziato – commenta Flora – può capitare che non sia nemmeno a conoscenza dell’esistenza di contenuti lesivi, e quindi non sia in grado di difendersi”. Quello che manca, secondo l’opinione di chi in questo campo ci lavora giorno dopo giorno, è la certezza di avere una risposta standard quando si ritiene di essere vittima di un’ingiustizia (vera o presunta).
“È abbastanza facile – spiega ancora l’esperto – ottenere che vengano rimossi contenuti che sono chiaramente offensivi: per esempio fotomontaggi volgari o ingiuriosi o immagini di altro tipo; più complicato è ottenere soddisfazione quando si tratta di contenuti testuali, che magari possono essere soggetti a differenti interpretazioni”. Per chi può permettersi un buon avvocato, ed è disposto ad andare fino in fondo, può magari non essere un problema. Ma per gli altri?


La Stampa