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Discussione: Libri digitali obbligatori a scuola, il Ministero boccia la carta

  1. #181
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    Cellulare, “dipendenza subdola e menomante”. A scuola ci si guardi negli occhi


    «Almeno un’ora al giorno rialziamo la testa, stacchiamoci dalle catene di una dipendenza subdola e menomante. Altrimenti anche noi rischiamo di essere usati dalle nuove forme di comunicazione spersonalizzanti piuttosto che dimostrarci responsabili utilizzatori di strumenti concepiti al nostro servizio e diventati invece moderne forme di schiavitù». Parola di don Aldo Buonaiuto, direttore del quotidiano In Terris e sacerdote della Comunità Papa Giovanni XXIII.
    Potrebbe essere proprio la Scuola il luogo dove reimparare a ragionare, ascoltare, apprendere guardandosi negli occhi?
    Macchine umanizzate, umani robotizzati
    A dare l’allarme sulla dipendenza generalizzata da smartphone era stato lo stesso papa Francesco, che fin dal settembre 2016 aveva ammonito: «A tavola, in famiglia, quante volte si mangia, si guarda la tv o si scrivono messaggi al telefonino! Ognuno è indifferente a quell’incontro. Anche proprio nel nocciolo della società, che è la famiglia, non c’è l’incontro», perché tutti «si incrociano fra loro, ma non si incontrano», vedono ma non guardano, pensano a sé, sentono ma non ascoltano. Umani trasformati in automi, mentre le macchine imitano sempre più capacità e prerogative umane. Lo aveva previsto il grande psicoanalista, sociologo, psicologo, filosofo Erich Fromm già mezzo secolo fa: «Il pericolo del passato era che gli uomini diventassero schiavi. Il pericolo del futuro è che gli uomini diventino robot».
    Le parli, ma lei legge il cellulare
    A tutti è capitato di parlare con una persona e capire di non essere ascoltati perché la persona in questione è immersa nella contemplazione del telefono. In metropolitana, se ci si guarda intorno, ci si accorge di essere gli unici a guardarsi intorno: gli altri sono tutti intenti a scambiar messaggi, vedere film in cuffia, giocare ai videogame. Seppure il treno è stracolmo, l’importante è riuscire a tenere il cellulare sotto il naso (anche a costo di non reggersi agli appositi sostegni, come le norme e la logica suggeriscono). Nessuno guarda negli occhi il vicino, nessuno comunica, nessuno vede chi gli è accanto. A prender coscienza di ciò, ci si sente soffocare e vien voglia di scappare via.
    Quali danni tutto ciò sta apportando alla mente umana? In che modo stanno crescendo le giovanissime generazioni (e soprattutto quelle in età scolare)? Scuola e insegnanti non devono forse prendere coscienza di essere oramai l’unico argine di umanità contro questo snaturamento costante delle nostre vite, che sempre più ci trasforma in consumatori/spettatori/cooperatori compulsivi di un nuovo modello di società (dis)umana a misura di multinazionale?
    Dispotismo tecnologico
    «I tempi necessari alla riflessione e al discernimento vengono considerati inutili», ha scritto il 15 gennaio scorso Aldo Buonaiuto sul quotidiano In Terris; «prevale ovunque la dittatura della velocità; il termine inglese “smart” è divenuto sinonimo di efficienza e rapidità di pensiero e azione. Sui social rimbalzano come in un videogame immagini di guerre, giovani vite spezzate sulle strade, bimbi che affogano in mare, gossip regale e persino dispute dottrinarie che tengono banco sui mass media mondiali. Cosa hanno in comune questioni così diverse? Il disprezzo per la lentezza, identificata come negazione di una modernità che divora tutto nel lampo di un tweet. Non c’è ormai colloquio nel quale si possa guardare l’interlocutore negli occhi per più di un minuto; basta un trillo per indurre a chinare la testa sul nuovo despota: la tecnologia. Persino durante la Messa si scappa dalla Chiesa quando il tiranno richiama il suo schiavo (…). L’adorazione del nuovo imbonitore arriva al punto da sostituire relazioni familiari con sudditanze virtuali, e addirittura in medicina si diagnostica una pericolosa malattia: la nomofobia, cioè il terrore patologico di non essere connessi». Troppi ambiscono solo a «nevrotizzarsi alla vana ricerca di un profitto d’immagine misurabile in like ricevuti».
    Scuola e smartphone
    E a Scuola? I cellulari vanno messi da parte? Non secondo l’attuale Ministra, che — non diversamente dai suoi predecessori in Viale Trastevere — ha in passato ribadito più volte la necessità che i docenti insegnino agli allievi ad usare “correttamente” gli smartphone, e che Scuola e didattica siano sempre più tecnologiche.
    Ma — a parte ogni altra considerazione — con quali infrastrutture? Con quelle consentite dai (miserrimi) fondi destinati alla Scuola? Gli istituti scolastici italiani sono al venticinquesimo posto in Europa per digitalizzazione; ben lo sanno i docenti italiani, costretti in moltissime scuole a collegarsi con il registro elettronico attraverso il proprio tablet (pagato di tasca propria) perché la connessione dell’istituto è troppo lenta o il computer fornito dalla scuola è troppo vecchio.
    Informatizzazione povera e nozze coi fichi secchi
    Se anche in campo informatico la Scuola italiana continuerà a celebrare sontuose nozze coi fichi secchi, sarà impossibile ai docenti distogliere gli alunni dai cellulari, e ancor più riuscire a dimostrare che il cellulare va usato “cum grano salis” e in modo responsabile.

    Con tutti i danni che questo comporterà.


    Tecnica della scuola
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  2. #182
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    La scuola di domani e la tecnologia «Il digitale dev’essere uno strumento, non la finalità del sistema educativo»


    Il 65% degli studenti attualmente nelle scuole, finito il loro periodo di formazione andranno a fare un lavoro che al momento non esiste. Una sorta di salto nel buio, raccontato dal World Economic Forum, con una certezza: qualunque mestiere i ragazzi del mondo andranno a fare, alla base di questo ci sarà il digitale. Software e hardware, e competenze trasversali – le cosiddette soft skills – che permetteranno alla forza lavoro di domani di destreggiarsi in un mercato probabilmente gravido di buone aspettative ma che, altrettanto probabilmente, la scuola di oggi fatica a codificare nei propri percorsi educativi. Questo è il motivo per cui secondo diversi analisti il settore della smart education arriverà entro 5 anni a valere la bellezza di 500 miliardi di dollari.
    La ricchezza di questo mercato in rapido, e necessario, sviluppo è stata ben rappresentata la scorsa settimana dall’incredibile folla che animava l’ExCel di Londra, l’enorme centro conferenze che ha ospitato l’edizione 2020 del Bett, il British Educational Training and Technology Show. Una fiera che da anni ha perso il solo accento britannico per diventare un riferimento mondiale per chi si occupa a vari livelli di traslare i percorsi formativi (anche) nelle nuove tecnologie. Non come scopo o solo contenuto dell’apprendimento ma come strumento, a prescindere dalle materie del proprio percorso formativo. Tra le 850 aziende presenti a Londra, a fianco di 34 mila educatori, si trovano i nomi che contano dell’universo delle tech company. Lenovo, Hp, Google ovviamente, anche qualche sprazzo di Apple. E Microsoft, che con il suo Office 365 gratuito per le scuole sta coltivando le basi di un nuovo settore dell’azienda con premesse di grande crescita. Non ha dubbi su questo Anthony Salcito, newyorchese del Bronx, che è il vicepresidente di Redmond dedicato al settore Education. Il Corriere l’ha incontrato tra i padiglioni del Bett per capire cosa possiamo aspettarci dalla scuola del futuro.
    La divisione Education di Microsoft riveste un ruolo sempre più importante all’interno dell’azienda. E sposa uno dei pilastri della direzione assunta con Nadella, ossia quella dell’inclusione, della tecnologia come tramite per fornire a ognuno pari opportunità di accesso. Perché per voi la scuola è un business?
    Lavoriamo nell’educazione perché fa parte della nostra missione, che è empower every person and every organization on the planet to achieve more. Se sostituisci “person” con “student” ottieni lo scopo di dare gli strumenti a ogni studente sulla Terra per ottenere di più dal mondo dell’educazione che lo circonda. E capisci che siamo nel cuore del lavoro di Microsoft e in quella che è o dovrebbe essere la missione di ogni scuola e di ogni istituzione, pubblica o privata che sia. E la tecnologia in questo è fondamentale, nel sostenere l’intuizione e la collaborazione tra i soggetti. E poi noi abbiamo bisogno di loro, delle nuove generazioni che stanno crescendo. Ogni nazione ha bisogno di persone di talento che trovano nuove soluzioni a vecchi problemi, o soluzioni geniali ai nuovi problemi che si presentano in una società che sta crescendo molto velocemente. Abbiamo capito negli anni che se lavoriamo in una zona di conflitto, di qualunque conflitto si tratti, una guerra oppure contrasti sociali ed economici, ebbene in queste zone Microsoft non lavora bene, non ottiene i risultati economici che potrebbe ottenere. Quando gli studenti, i bravi studenti e la buona scuola creano una società sana attraverso l’innovazione, e la loro scintilla crea posti di lavoro, allora Microsoft così come le altre compagnie private ne traggono beneficio economico.
    Il tema della smart education sta diventando un nuovo terreno di scontro tra le super-potenze della tecnologia. Come vede questa competizione negli anni a venire?
    Non posso parlare per gli altri marchi, ma sono certo che risponderebbero allo stesso modo: c’è molto dibattito in questo periodo storico sull’educazione, l’opportunità di business è lì ed è visibile a tutti. Ma non è direttamente attraverso il sistema educativo, il vendere prodotti alle scuole. La vera opportunità si sviluppa insieme alle strutture che creano educazione, come detto: queste realtà, se illuminate e sane, creano nuove opportunità di lavoro, attivano crescita economica e sociale, in Italia così come nel resto del mondo. E ovviamente società commerciali come le nostre sono molto interessate a questo. E non siamo in competizione con Google e gli altri, siamo in competizione con l’abbandono scolastico, con le tante storie di studenti che non ce la fanno e che riducono le proprie aspettative perché il sistema scolastico non permette loro di coltivarle e di far crescere le loro capacità, siamo in competizione con insegnanti che si sentono sorpassati, che non credono più di potersi aggiornare a nuovi metodi di insegnamento. Alla fine succede che se vinciamo queste sfide e l’economia cresce, allora compagnie come la nostra funzionano meglio, hanno migliori risultati di mercato. Non c’è impegno più importante per la nostra azienda che mettere gli studenti di tutto il mondo nelle condizioni migliori di imparare e crescere. E per farlo cerchiamo di rispondere a questa domanda: come possiamo rendere gli insegnanti più meravigliosi agli occhi dei loro ragazzi?
    Ci ha raccontato come, durante i suoi frequenti viaggi in aereo, sua fedele compagna di viaggio è una console (la Switch di Nintendo, ndr). Che ruolo possono avere i videogiochi nella scuola di domani?
    L’esempio che faccio ovviamente su Minecraft (il videogioco in stile Lego acquisito da Microsoft nel 2015 per 2,5 miliardi di dollari, ndr). È una tela vuota dove gli studenti possono esprimere tutta la loro creatività, l’abilità di problem solving. I ragazzi attraverso il gioco non imparano il coding perché devono lavorare su Java, cioè su vero codice, lo fanno perché vogliono costruire una fattoria e devono organizzarla in modo da riuscire a mettere 20 mila piante da frutto nei loro campi. Facendo questo imparano il pensiero computazionale perché devono di fatto mettere in ordine un codice sequenziale di operazioni per ottenere quello che si sono posti come obiettivo. È il concetto alla base dell’apprendere facendo. Quando vuoi imparare il codice per costruirti una carriera allora le materie Stem possono essere difficili, un ostacolo. Quello che suggerisco alle scuole è di abbracciare la tecnologia indipendentemente dalle materia, come uno strumento per affrontare qualunque questione. E allora non avremmo questo gender gap che vediamo oggi nelle scuole.
    L’esempio perfetto è appunto Minecraft, abbiamo strumenti nella versione Educational che si possono applicare a qualunque materia, per esempio alla chimica, nel mondo di Minecraft hai modo di capire come sono costruiti gli oggetti, quali componenti hanno al proprio interno così da poterli replicare trovando le materia prime. E questo lo puoi fare fin dalle elementari senza dover aspettare di essere alle superiori per dover affrontare la chimica come una materia a sé e di farlo solo sui libri o se sei fortunato in laboratorio. Minecraft non dipende dal genere, dal ragazzo o ragazza che ci si approccia. Ognuno crea il proprio metodo per arrivare all’obiettivo, si creano dei percorsi che poi replicano se sono funzionali oppure variano se non lo sono. E fanno progetti legati alla storia, alla religione fino ad arrivare appunto all’agricoltura che è un sistema complesso.Il lavoro nelle scuole, con i ragazzi in generale, è molto delicato perché basta una parola sbagliata per creare un disastro. Voi come vi approcciate?
    Io passo la mia vita a viaggiare per conoscere scuole e studenti, mi connetto con loro ogni giorno per vedere cosa fanno e come usano i nostri strumenti. E in quelle occasioni non sono mai io a dover porre questioni, sono loro che mi sollecitano ad avere risposte su temi anche complessi. Io rispondo e non mi è mai capitato di rimanere deluso dalle loro reazioni, al limite è accaduto il contrario: un bambino o un ragazzo motivato riesce a darti sempre molto di più di quanti tu potresti aspettarti. Allora io li sfido ulteriormente, per dare ancora di più. E lo faccio attraverso due sollecitazioni: la prima è quella di domandare, domandare sempre, non accettare una risposta incompleta ma chiedere oltre, di non accontentarsi di studiare qualcosa ma chiedere perché la si sta studiando. E se la risposta non li soddisfa, di andare avanti finché chi hanno davanti non presenta loro un contesto entro il quale possono capire perché stanno studiando per esempio l’algebra. A volte gli insegnanti non sono contenti di questo mio approccio ma credo sia l’unico che possa permettere agli studenti di imparare davvero e quindi di capire come mettere in pratica quanto stanno imparando. La seconda cosa che chiedo loro è di inquadrare un oggetto che hanno nella loro classe, la bandiera, una cartina, una foto e che ogni volta che vedono questo oggetto ricordarsi dentro di loro di aspettarsi di più da quel contesto, aspettarsi di più dagli insegnanti, dalla scuola, dai genitori, dalla società in cui vivono, dal loro governo. E ovviamente da loro stessi. E questo vale per tutti, per gli studenti nelle parti più depresse del mondo, per quei ragazzi che hanno delle disabilità che li fanno sentire diversi dagli altri, che creano barriere nell’apprendimento. Questi ragazzi, come tutti gli altri, che siano in Africa o che abbiamo dei bisogni speciali, tutti loro hanno le stesse motivazioni e lo stesso diritto a collaborare per poter migliorare la loro situazione e quella della società in cui vivono.
    Nel corso della nostra trasferta a Londra abbiamo avuto l’opportunità di visitare l’UTC Reading, un istituto tecnico per ragazzi e ragazze dai 14 ai 18 anni dove si respira un’aria diversa, molto professionale e un’educazione molto orientata al mondo del lavoro. Una scuola modello dove studenti in giacca e cravatta imparano a diventare i migliori nel loro campo, che sia ingegneria o programmazione. Non è un rischio, per i ragazzi stessi, lavorare con l’obiettivo di creare una scuola che si propone di creare studenti che sono – come dite voi – market ready?
    In alcune scuole si trovano studenti molto seri, molto preparati e anche impostati da parte della scuola. Ma questo non vuol dire che non siano anche ragazzi, ragazzi “normali” si potrebbe dire, che escono con gli amici, si divertono. Hanno i propri spazi per essere “irresponsabili”, senza che questo tolga loro la possibilità anche di essere già impegnati nella società. Credo che i ragazzi abbiano tante energie e questo rende il loro spettro d’attività praticamente infinito. E va dalla scuola ai social media, dagli amici ai videogiochi. Serve ovviamente equilibrio come in tutte le cose, ma se non siamo noi per primi ad aspettarci qualcosa in più da loro, c’è il rischio poi che loro si fermino. E questo sarebbe un peccato.



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  3. #183
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    Informatica dalle elementari ma le maestre non sono pronte


    Si scrive coding, si legge programmazione informatica e diventa materia di studio entrando a scuola dalla porta principale. Il governo infatti prevede di portare la programmazione tra i banchi dei bambini fin dalle scuole elementari ma, prima, bisognerà pensare a formare le maestre. L’idea è quella di preparare gli studenti anche più giovani a costruire siti web o a sviluppare applicazioni, come se si trattasse di equazioni o problemi di geometria. Un progetto che parte dal ministero dell’innovazione: «Stiamo parlando molto con il ministero dell’istruzione ha dichiarato la ministra Paola Pisano – per inserire la programmazione informatica nelle scuole come materia vera e propria. Un’iniziativa che si potrebbe attuare: ci aspettiamo che nella nostra visione a cinque anni ci sia questa materia sui banchi di scuola sin dalla prima elementare».
    LE CARENZE
    L’introduzione dovrà essere graduale e dovrebbe partire dal 2022. La scuola, a questo appuntamento, deve farsi trovare pronta. E non sarà semplice. In molti casi mancano infatti all’appello sia gli strumenti informatici nelle scuole sia i docenti con le giuste competenze per portare l’informatica in cattedra. Un recente sondaggio del sito specialistico skuola.net, su un campione di settemila studenti tra le scuole medie e superiori, rivela che il 43% dei ragazzi non usa l’aula computer a scuola e inoltre, per quanto riguarda l’uso di strumenti informatici portati da casa, ben 6 studenti su 10 non hanno la rete wi-fi messa a disposizione dalla scuola. Circa il 60% dichiara di non aver avuto lezioni di informatica e conoscenze digitali, come ad esempio la programmazione, nell’ultimo anno e quindi, inevitabilmente, 8 intervistati su 10 ammettono di non aver mai creato un sito a scuola. E non è solo un problema della scuola visto che secondo il Desi, l’indice digitale europeo per il 2018, l’Italia – per il quarto anno consecutivo – si piazza al 25esimo posto su 28 Paesi membri dell’Ue per le competenze e l’utilizzo del digitale.
    «Il coding deve essere considerata come la quarta abilità di base per le nuove generazioni di studenti ha spiegato la deputata di Forza Italia Valentina Aprea, capogruppo della Commissione Cultura – insieme al leggere, allo scrivere e al far di conto. Non c’è più molto tempo, soprattutto se bisognerà formare tutti i docenti della scuola italiana a queste nuove competenze. Attualmente il digital divide dei docenti italiani rappresenta una tra le criticità più vistose della scuola italiana».
    I FONDI
    La ministra Lucia Azzolina si è già dichiarata pronta ad investire nella didattica innovativa, per coinvolgere al meglio gli alunni fin dalle elementari. E l’età sembra essere quella giusta, così assicura infatti Barbara Riccardi, finalista italiana al Global Teacher Prize e docente di scuola primaria che ha iniziato anni fa a praticare il coding tra i suoi piccoli studenti: «Noi siamo cresciuti con la penna, i nostri ragazzi invece useranno il computer per ogni tipo di lavoro che faranno. Fin dalla scuola primaria va introdotto il linguaggio informatico con l’utilizzo del pc. È possibile usare robottini e programmi didattici dalla scuola dell’infanzia alle elementari». Per far partire la programmazione e lo studio dell’informatica nelle scuole verranno investiti 8,2 milioni di euro per il lavoro dei cosiddetti animatori digitali negli istituti: si tratta dei docenti scelti che devono promuovere attività informatiche tra gli studenti e la formazione tra gli insegnanti.
    Lorena Loiacono



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