L’ipotesi di ridurre la durata dell’istruzione pre-universitaria a 12 anni, ma soprattutto quella di togliere un anno al secondo ciclo, sta sollevando, o ri-sollevando, una serie di critiche e opposizioni, in parte ideologiche, in parte corporative.
Tra le prime si collocano quelle dei difensori ‘a priori’ della quinquennalità del liceo, a partire dal classico, che sostengono l’impossibilità di comprimere in quattro anni insegnamento/apprendimento di determinate materie (greco, matematica allo scientifico). La stessa obiezione viene avanzata per gli istituti tecnici, che già con le recenti riforme hanno visto ridurre lo spazio-tempo per alcuni insegnamenti e attività di laboratorio. Di principio è anche l’opposizione di chi sostiene che caso mai occorrerebbe aumentare il tempo scuola, soprattutto nel biennio iniziale, per combattere la dispersione. Di questo schieramento conservatore sul tema fanno parte anche coloro che ritengono - magari citando alcune recenti prese di posizione del ministro Profum0 - che dopo gli sconvolgimenti degli ultimi anni la scuola italiana abbia oggi bisogno di stabilità, non di ulteriori riforme.
Tra le resistenze di segno corporativo ci sono quelle dei movimenti, associazioni e sindacati vicini al mondo del precariato scolastico, che temono l’ulteriore taglio degli organici, valutabile in circa 40.000 posti in caso di ‘taglio lineare’, a scapito in primo luogo dei precari.
Anche i sindacati maggiori però esprimono forte contrarietà, soprattutto sul metodo (Pantaleo, Flc-Cgil: “Bisognerebbe evitare di annunciare ogni giorno possibili cambiamenti senza una verifica sulle possibilità reali di raggiungere risultati concreti perché così si crea molta confusione e incertezza”. Scrima, Cisl scuola: “Su temi come i percorsi di studio non si può improvvisare, né ripescare proposte che già hanno mostrato tutti i loro limiti”). Non c’è però un’opposizione di principio a discutere.


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