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Discussione: TESTI E STORIE DI NATALE (racconti)

  1. #11
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    NATALE AL FRONTE




    Era il 1917, uno dei terribili anni della prima guerra mondiale. Sulle trincee spirava un vento gelido e c'era tanta neve. I soldati si muovevano cauti, la notte era senza luna, ma serena e tutti avevano paura di incontrare delle pattuglie nemiche, perché il nemico era lì davanti a loro.
    Ad un tratto un caporale disse sotto voce: «è nato!».
    «Eh?» fece un altro senza afferrare l'allusione. «Deve essere la mezzanotte passata perbacco. La notte di Natale! Al mio paese mia moglie e mia madre saranno già in chiesa».
    Un altro compagno osservò: «Guardate là, c'è una grotta. Andiamo dentro un momento, saremo riparati dal vento».
    Entrarono nella grotta e il più giovane del gruppo si tolse l'elmetto, si sfilò il passamontagna e si inginocchiò in un cantuccio. Il caporale rimase all'entrata e voltò le spalle all'interno con fare superiore: ma era perché aveva gli occhi pieni di lacrime.
    Il più vecchio del gruppo si tolse i guantoni, raccolse un po' di terra umida e manipolandola qualche minuto le diede la forma approssimativa di un bambinello da presepio. Poi stese il fazzoletto nell'elmetto del compagno e vi depose il Gesù bambino. Si scorgeva appena nella fioca luce delle stelle riflessa dalla neve.

    Il caporale trascurando ogni prudenza tolse di tasca un mozzicone di candela, l'accese e la pose vicino all'insolita culla. Poi sottovoce uno cominciò a recitare: "Padre nostro che sei nei cieli...". Tutti continuarono e avevano il cuore grosso da far male.
    Il raccoglimento durò ancora dopo la preghiera. Nessuno voleva spezzare l'atmosfera che si era creata.
    Improvvisamente alle loro spalle una voce disse.«Fröhliche Weihnachten» (Buon Natale).
    Una pattuglia austriaca li aveva colti alla sprovvista. Con le armi puntate stavano all'imboccatura della grotta. Mentre i soldati scattavano in piedi la voce ripeté con dolcezza: «Buon Natale ».
    I nemici abbassarono le armi e guardarono la povera culla. Erano tre giovani e avevano bisogno anche loro di un po' di presepio, anche se povero. Si guardarono confusi, poi si segnarono e cominciarono a cantare «Stille Nacht», la bella melodia natalizia che tutti conoscevano.
    Tutti si unirono al coro anche se si cantava in lingue diverse. Poi quando si spense l'ultima nota del canto il caporale si avvicinò a uno dei giovani nemici e gli tese la mano che l'altro strinse con calore. Tutti fecero altrettanto, augurandosi il Buon Natale. Poi uno degli austriaci trasse da dentro il pastrano una piccola scarpina da neonato. Doveva essere quella del suo bambino e se la teneva sul cuore, e dopo averla baciata la depose accanto al Bambino Gesù rimanendo per alcuni attimi in preghiera.
    Poi si voltò di scatto e seguito dai compagni si allontanò voltando le spalle, senza timore, e scomparve nella notte di quel gelido Natale di guerra.

    L'amore vince l'odio

    «Pace in terra agli uomini di buona volontà» cantavano gli angeli attorno alla grotta di Betlemme. Anche quest'anno però in molte parti della Terra non c'è pace vera. Le armi continuano a coprire con il loro micidiale canto di morte ogni parola di pace.

    La pace vera non è però frutto dell'attività dei politici: nasce nei nostri cuori e si diffonde attorno a noi. Se vogliamo che il mondo sia nella pace dobbiamo essere noi gli operatori di pace e saremo beati e chiamati figli di Dio.


    PREGHIERA

    In principio
    con Te c'era la tenerezza.
    Con lei Tu hai fatto
    la volta del cielo:
    hai fissato in alto
    Sirio e Alfa del Centauro
    e il cammino delle stelle.
    Con essa Tu hai
    fondato i continenti:
    hai dato vita agli uccelli
    tra le fronde,
    all'odore della terra
    dopo la pioggia,
    al percorso dei delfini
    tra le onde dell'oceano.
    Con essa Tu hai creato
    l'uomo e la donna:
    la bellezza dei loro corpi
    e l'amore che li culla
    come un fiume di fuoco.
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  2. #12
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    Uno sciopero straordinario
    di Dino Ticli



    Il fatto e accaduto tanti anni fa quando ancora gli scioperi non erano molto conosciuti. Possiamo perciò considerarlo come il primo vero sciopero della storia.
    Una storia un po' strana, però; infatti a protestare furono tutti i Babbo Natale della Terra.
    Ecco perché.
    Allora come oggi, durante l'intero anno, nel loro rifugio al Polo Nord, i Babbo Natale preparavano con cura i regali, ed esaminavano ogni lettera ricevuta per essere pronti a distribuire i doni ad ogni dicembre.
    è un lavoro che hanno sempre saputo svolgere con precisione. Possiedono infatti numerosi mezzi di trasporto adatti per andare in ogni luogo della Terra.
    Il Babbo Natale che compie il suo giro in Africa viaggia su un calesse trainato da quattro magnifici struzzi.
    Quello che va in Asia sta comodamente seduto in un baldacchino sulla groppa di un elefante.
    Una bella slitta trainata da renne, abituate al freddo, e usata dal Babbo Natale che viene da noi in Europa.
    Naturalmente un magnifico canguro, che oltretutto possiede una borsa capiente sulla pancia, trasporta il Babbo Natale australiano.
    Numerosi altri sono i mezzi che usano, ma li lascio immaginare a voi.
    Purtroppo in quel lontano periodo stava accadendo qualcosa di molto preoccupante che mise presto in subbuglio l'intero Polo Nord.
    - è proprio una brutta situazione - disse il Babbo Natale addetto a distribuire doni in Cina, con i suoi panda da traino al suo fianco. - Lo sapete anche oggi l'orso postino ha portato pochissime lettere?
    - Purtroppo sì... e pensare che lo scorso anno ne ricevevamo centinaia ogni giorno - disse il Babbo africano strigliando il dorso delle sue zebre.
    - Per non dire di alcuni anni fa, quando eravamo sommersi dalle richieste dei bambini - aggiunse quello americano.
    - Sono veramente troppo poche queste lettere - intervenne quello giapponese sollevando una manciata di fogli, - e oltretutto bisogna considerare che almeno la metà le ha scritte il nostro buon orso postino che non sopporta di vederci così giù di morale.
    - Davvero? - domando sorridendo quello europeo.
    - Ma certo! Senti questa cosa dice: "Caro Babo Nattale, sonno un banbinno di sete anni e desiddero richevere ha Nattale una bela e sugossa bisteca di balena che non lo mai sagiata".
    - Hai ragione - esclamo sorridendo a quelle parole, - nessun'altro avrebbe saputo scrivere una simile lettera. - Ma che cosa sta succedendo?
    - Ve lo dico io: i bambini non credono più che Babbo Natale esista e perciò hanno smesso di scriverci.
    - Ma come mai? Chi li ha convinti di questo?
    - Cosa vuoi, i genitori non hanno più la pazienza di raccontare ai bambini la storia di Babbo Natale. E poi in quest'era moderna, dove le carrozze sfrecciano a destra e a sinistra, dove centinaia di velieri solcano i mari, la gente corre indaffarata, i castelli e i palazzi sorgono come funghi, chi vuoi che abbia voglia e tempo di credere a noi?
    - Ma se nessun bambino ci scrive più, come faremo a portare loro i regali che desiderano?
    - E infatti, anche quest'anno, solo pochi riceveranno i doni: quelli che ci hanno scritto e i bambini più ricchi, perché ai loro genitori non interessa Babbo Natale.
    - Che brutta cosa!
    - Terribile, dico io!
    - Bisogna porvi rimedio!
    - Già, e come?
    - Protestiamo!
    - Protestiamo?
    - Certo! Con uno sciopero: quest'anno non porteremo i doni a nessuno.
    - Hai ragione!
    - Davvero! Inoltre stamperemo tanti volantini che distribuiremo con i nostri mezzi di trasporto, in tutta la Terra. Scriveremo così: "Babbo Natale quest'anno sciopera, perché nessuno vuole più credere in lui".
    E lo fecero davvero.
    Quell'anno i bambini di tutto il mondo ci rimasero molto male per non aver ricevuto neanche un dono; ma alla fine piccoli e grandi capirono i loro errori e furono davvero felici di avere riscoperto Babbo Natale, con il quale si scusarono di cuore, inviando fiumi di lettere.
    E i Babbo Natale, commossi, l'anno successivo portarono il doppio di regali.

    Da allora tutto e tornato normale, anche se girano brutte voci che dicono che l'orso postino da un po' di tempo a questa parte ha ricominciato a scrivere lettere a Babbo Natale.
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  3. #13
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    LA STELLINA CURIOSA
    di M. P. Sorrentino


    C'era una volta una stellina molto curiosa. Stava sempre spenzolata dal cielo per guardare tutto quel che accadeva sulla Terra. Invano l'angelo lampionaio, che va la sera in giro per il cielo ad accendere le stelle, le diceva: - Bada, stellina, non spenzolarti così: una volta o l'altra finirai per cadere.
    La stellina faceva proprio come fanno certi bambini di mia conoscenza quando la mamma raccomanda loro di non spenzolarsi dalla finestra: fingeva di non udire.
    Una brutta sera la stellina si spenzolò più del solito e, patapumfete, perse l'equilibrio e cadde sulla Terra.
    Povera stellina, che spavento! Rotola rotola, andò a finire sul ciglio di un monte: era sempre una stellina, ma non c'era più l'angelo lampionaio per accenderla, e perciò non mandava più luce.
    Il buon Dio ebbe pietà della stellina spenta e la trasformò in un fiore: fece di lei la stella alpina, che spicca tutta bianca fra il verde, e sembra una stella caduta dal cielo. Ma, lo credereste, anche trasformata in un fiore, la stellina non ha perduto il vizio di essere curiosa: sta sul ciglio del burrone, proprio sul margine estremo, e si spenzola nel vuoto per guardare quel che avviene sotto di lei. Non allungate la mano per coglierla, bambini: la stellina pettegolina cresce in posti troppo pericolosi.
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  4. #14
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    LA STELLA

    di Edmond Rostand (1868-1918)


    Perdettero la stella un giorno.
    Come si fa a perdere la stella?
    Per averla troppo a lungo fissata...
    I due re bianchi, ch’erano due sapienti di Caldea,
    tracciarono al suolo dei cerchi, col bastone.

    Si misero a calcolare, si grattarono il mento...
    Ma la stella era svanita come svanisce un’idea,
    e quegli uomini, la cui anima
    aveva sete di essere guidata,
    piansero innalzando le tende di cotone.

    Ma il povero re nero, disprezzato dagli altri, si disse:
    "Pensiamo alla sete che non è la nostra.
    Bisogna dar da bere, lo stesso, agli animali".

    E mentre sosteneva il suo secchio per l’ansa,
    nello specchio di cielo
    in cui bevevano i cammelli
    egli vide la stella d’oro che danzava in silenzio.
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  5. #15
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    La Vigilia di Natale

    Andrea Antognini

    C 'era una volta, alle porte di una città perduta fra sogni di angeli bambini, in un luogo lontano, inaccessibile agli esseri umani, un vecchio albero che si ergeva in una radura di candidi pensieri... immerso nelle foschie di un mattino d'inverno.
    In quel tempo, ricordo, che Dicembre iniziava a stendere il tappeto rosso ai primi giorni di vigilia sui sentieri d'anima di quelle creature che, in fondo al loro cuore, credevano davvero agli gnomi, alle fate e alle piccole magie.
    Il vecchio albero se ne stava là, tutto infreddolito, con i suoi rami nudi, a guardare il cielo, carico di neve, che di lì a poco avrebbe preso a scendere leggera sulle sue braccia stanche. Neppure una gemma colorata, nulla che gli portasse un po' di quella Festa del Natale. Cominciò allora a singhiozzare col vento che gli passava accanto e quel triste lamento, appena sussurrato, giunse lontano, quasi all'orizzonte della realtà e si posò sul cuore di due bambini addormentati. Fu così che dal sonno di quei due piccoli cuccioli nacque un sogno meraviglioso... che volò, volò fino a lui.
    Nello stesso istante, l'albero sentì posarsi sui rami più alti due uccellini e smise di singhiozzare... il loro zampettare sulle sue lunghe braccia gli faceva un po' di solletico e accennò loro un sorriso. Era così tanto tempo che se ne stava lì solo, fu così che si fece coraggio e domandò loro:
    "Cosa succede per le vie del mondo ? Voi che potete volare fin là, ditemi se ci sono già le luci colorate sugli alberi e se i bambini sono felici... Cancellate, se potete, questa mia lunga solitudine... ".
    I due uccellini cominciarono a cinguettare, ma l'albero non riusciva a capire nulla... cercò di prestare più attenzione, ma invano... quei trilli restavano per lui soltanto una melodia meravigliosa e incomprensibile.
    "Fra qualche giorno sarà Natale... " continuò allora sospirando "Come vorrei essere anch'io pieno di luci... coperto dei sorrisi dei bambini, sentire quel calore dentro, quella gioia che ho dimenticato... avere un giorno da rincorrere per sempre..."
    Gli uccellini smisero di cinguettare e sembrarono sorridergli... fu solo allora che, nel silenzio, il vecchio albero riuscì a capire... a sentire qualcosa che gli arrivò in fondo al cuore, che lo commosse profondamente, tanto che gli sfuggì una lacrima dai mille riflessi dell'amore.
    C'era poco tempo... perché i due bimbi, nei loro lettini, si sarebbero svegliati... e, allora, i loro sogni alati, fatti di piume soffici e pieni di quell'incanto che solo i cuori più puri possono abbracciare... sarebbero di nuovo volati via dalle sue braccia... e lui sarebbe restato ancora i compagnia della sua malinconica solitudine.
    Fu allora che accadde una cosa davvero insolita, qualcosa di magico... Da lontano, il vecchio albero vide arrivare una strana creatura, avvolta di un manto rosa e azzurro, come d'aurora... I suoi passi erano lenti... quasi si librasse nell'aria... come a non voler sfiorare la terra, addormentata sotto la grigia coperta dell'inverno. Chiunque fosse quella Signora, l'albero capì che stava dirigendosi verso di lui, perché la radura dove tanti e tanti anni prima aveva piantato le sue radici era assai lontana da ogni sentiero e, ormai, solo raramente, qualcuno arrivava più fin là...
    Quando la Signora gli fu accanto, il vecchio albero, aiutato da un soffio di vento, cercò di farle un inchino, ma la sua scorza antica gli permise appena di piegare le dita... i suoi rami più alti... Fu allora che lei lo guardò e sorrise.
    "Chi sei" mormorò con voce di vento l'albero.
    "Sono la Vigilia... la Vigilia del Tempo... " e, dicendo quelle parole, aprì le mani e da esse ne uscì una luce così intensa, che per un istante ogni cosa attorno sembrò sparire, offuscata da quell'intenso bagliore.
    "Io vado per il mondo a regalare la luce, il sentimento che hai provato... è il mio dono, che riempie di magia ogni attesa... Regalo me stessa, la Vigilia del Tempo alle creature... rendo eterna la loro gioia... - il loro attendere l'attesa... - ".
    L'albero non disse nulla... ma la Signora avvertì lo stesso la sua immensa solitudine... scrollò il capo, gli sorrise e continuò:
    "Con me, questa volta, ho portato per te qualcosa di più... ma è il cuore ed il sogno di quegli eterni bambini che devi ringraziare... ora quegli uccellini voleranno di nuovo verso il loro risveglio, ma questa notte... aspettali ancora ! Torneranno... ed anch'io ci sarò... ".
    Riuscì appena a capire quelle ultime parole, che sentì un frullio d'ali allontanarsi... e le sue braccia tornare spoglie...
    Il vecchio albero non poteva immaginare cosa sarebbe accaduto, ma un profondo senso di dolcezza e di gioia lo attraversò dalle radici ai rami più alti, fino a sfuggire verso il cielo. Anche la Signora era svanita nel nulla e il giorno cominciò a correre veloce, come le nubi sopra di lui, volando sopra la sua chioma spoglia. Quell'attesa fu dolce, rapida come il volo del falco... fu quasi un sorriso... poi, la sera giunse silenziosa, discreta... quasi in punta di piedi.
    Il cielo era limpido e l'aria fredda e pungente... l'albero guardò le mille stelle occhieggiare verso l'infinito. Poi, d'improvviso, udì un battere d'ali farsi sempre più vicino, finché sentì di nuovo posarsi sulle sue braccia i due uccellini. Da un raggio di Luna scese la Signora della Vigilia del Tempo... e si fermò ai piedi del vecchio albero... I due uccellini, ad un cenno di quella dolce creatura, presero a tuffarsi nel cielo e a riportare, ad ogni volo, un frammento di stella, per posarlo ora qua ora là sui rami dell'albero.
    In poco tempo... quel vecchio tronco divenne l'albero più bello che la Vigilia avesse mai visto... e, quando con un sorriso stava per ringraziare di quel dono meraviglioso... la Signora del Tempo lo fermò e gli disse:
    "No, non ringraziare me... Questo dono è opera di quei due bimbi, che nei loro sogni, hanno voluto regalarti una vigilia di Natale tutta loro... Ora, io aggiungerò il mio regalo... " e nel pronunciare quelleparole, aprì di nuovo le mani e quella luce che aveva già visto all'alba, uscì di nuovo ed entrò nel tronco, come un alito... linfa d'amore.
    "Io... " disse la Signora "...aggiungerò a questa vigilia del Natale... anche la Vigilia dell'Eternità... Da oggi, ogni notte, ogni istante, sarà vigilia... un'eterna vigilia... sarà l'attesa più dolce di tutti i tuoi desideri. E la tua vita non conoscerà più buio né malinconia. Tutto l'amore che hai sempre regalato al Tempo, oggi il Tempo te lo renderà... "
    Nella radura, accanto al vecchio tronco, quella notte... dai petali di un bucaneve scesero stille dai mille colori. Non seppi mai se fu rugiada o se fu pianto... e, da allora, ogni notte... quegli uccellini tornano ad accendere quel cuore con mille luci rubate in cielo... e quell'albero è ancora là... ad aspettare felice, un giorno che non verrà... perché di eterna vigilia è diventata la sua vita.

    ex tomtom
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  6. #16
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    IL VECCHIO MOISè
    di Grazia Deledda


    Quand'ero ragazzetta, avevamo in casa nostra un vecchio servo della Barbagia chiamato Moisè. Era il suo vero nome? Non credo; forse era un soprannome, perché realmente il vecchio rassomigliava al profeta Mosè, alto e bruno in viso com'era e con una lunga barba a riccioli; o piuttosto perché fra le altre cose egli sapeva fare certi scongiuri contro il malocchio, contro le malattie del bestiame, contro le formiche che rapiscono il grano dall'aia, contro i bruchi, le cavallette e i vermi, contro le aquile per impedir loro di rapire i porcellini, gli agnelli ed anche i bambini; e in quasi tutti questi scongiuri (in dialetto chiamati verbos , cioè parole misteriose) c'era un'invocazione a Mosè.
    Moisè era vecchio ma robusto ancora e lavorava tutto l'anno; d'inverno custodiva i branchi di porci e di maialini che pascolavano e mangiavano le ghiande su per i boschi d'elci del monte Orthobene; ma tornava in paese per le grandi solennità, e specialmente il Natale voleva passarlo in casa dei padroni. Non era vecchio decrepito, volevo dire, ma a sentirlo parlare pareva che egli avesse almeno due millenni; tutte le storie che raccontava risalivano agli «antichi tempi» quando Gesù non era nato ancora ed il mondo era popolato di gente semplice ma anche di esseri fantastici, di animali che parlavano, di diavoli, di nani, di bìrghines , vergini che eran buone coi buoni e cattive coi cattivi e passavano il tempo a tessere porpora ed oro.
    Quando Moisè tornava a casa per Natale noi ci affollavamo attorno a lui per sentire le sue storie. Egli sulle prime si faceva pregare; preferiva insegnarci ad arrostire tra la brage le ghiande, che si gonfiavano e diventavano rosse e saporite come castagne; e ci diceva che in certi paesi della Sardegna si fa anche il pane di farina di ghiande, al quale si mescola una certa argilla che lo fa diventare più saporito e consistente; poi a furia di preghiere e di occhiate supplichevoli, si riusciva a fargli raccontare qualche storia.
    Seduti intorno al camino ove ardevano interi tronchi di quercia o intere radici di lentischio, nere e aggrovigliate come teste di Medusa, noi ascoltavamo attentamente. Era presto ancora per la grande cena, che si fa dopo il ritorno dalla messa di mezzanotte, alla quale noi però non assistevamo perché la notte di Natale è quasi sempre rigida e nelle notti rigide i ragazzi devono andare a letto; ma per noi e per tutti quelli che volevano mangiare senza profanare la vigilia veniva preparato un piatto speciale, di maccheroni conditi con salsa di noci pestate, e con questo e con le storie di Moisè ci contentavamo. Egli dunque soffiava sul fuoco con un bastone di ferro; un bastone bucato che era poi una vecchia canna d'archibugio, e raccontava. «Quando nacque Gesù, - egli diceva, - la gente era buona ancora e senza malizia; ma appunto perché gli uomini eran ingenui e avevan paura di tutto, il mondo era infestato di esseri maligni. Allora esistevan le cattive fate, che potevan cambiarsi in animali e spesso andavano nelle case, sotto forma di gatti, di cani o di galline, e vi portavano sventura; allora esistevano i cavalli verdi, che portavano i proprii cavalieri nei precipizî; esistevano i vampiri, esistevano i serpenti e specialmente uno terribile che si chiamava Cananèa ; ma sopratutto davan da fare ai buoni pastori e alle buone massaie i diavoli che prendevano aspetto umano e si fingevano anch'essi pastori e venivan riconosciuti solo dalle unghie attorcigliate o dai piedi simili a quelli dell'asino. Gesù venne al mondo per liberarlo da tutti questi esseri maligni, e specialmente dai diavoli; infatti adesso non ne esistono più; ma prima di sparire dal mondo, i diavoli e gli esseri maligni cosa fecero? Lasciarono qua e là oggetti così impregnati della loro malignità che gli uomini che li toccavano diventavano cattivi e tramandavano la loro cattiveria ai loro discendenti. In altro modo non si spiega la malvagità di certi uomini che sembravano diavoli davvero. Gli stessi giudei che presero e uccisero Gesù erano uomini corrotti dall'aver toccato qualche oggetto del diavolo, e i bambini cattivi dei nostri tempi vengono ancora chiamati diavoletti. Ad ogni modo gli uomini fanno ancora una gran festa per ricordare la nascita di Gesù, loro liberatore; presso i popoli ancora patriarcali, come quello della Sardegna, la festa comincia veramente dopo la mezzanotte, si prolunga fino all'alba, con canti, suoni, balli, e dura tutto il carnevale. In certi paesi la gente si porta da mangiare in chiesa, e dopo il "Gloria" tutti cominciano a sgretolare noci e mandorle; all'alba il pavimento della chiesa appare coperto di bucce di mele, scorze di arance, gusci di nocciole. In quasi tutti i paesi la gente si scambia regali, e i fidanzati dànno alla sposa una moneta d'oro o di argento o mandano in dono un porchetto.
    Quand'ero ragazzo, m'accadde un'avventura curiosa.
    Mio padre era pastore di porci, e stava fuori di casa tutto l'anno, ma per il giorno di Pasqua e per Natale voleva immancabilmente tornare in paese. Finché fui piccolo io, egli in quei giorni faceva custodire il gregge da un servo; ma appena io potei aiutarlo egli mi condusse all'ovile, e la notte di Natale mi toccava di stare lassù, nel bosco umido e freddo, entro una capanna od anche dentro una grotta riparata dai venti e dalla neve, sì, ma nera e paurosa come le grotte delle leggende. Io non avevo paura, anche perché mio padre diceva che mi lasciava solo appunto per abituarmi ad essere coraggioso; ma nella notte di Natale mi sentivo triste, accasciato. Appena sera mi coricavo in un angolo, mi coprivo fino agli occhi col manto , lunga e larga striscia di orbace (panno sardo) che d'inverno noi pastori ci buttiamo sul capo e sulle spalle, allacciandola sotto il mento; e pensavo al Natale in paese. Ecco, pensavo, a quest'ora il fidanzato di mia sorella ha già mandato a casa nostra in regalo un bel porchetto dalla cotenna rossa, sventrato e riempito di foglie d'alloro, mia madre già prepara la grande cena, mentre mia sorella indossa il suo costume nuovo e mette in testa il suo cappuccio per andare alla messa. Arriva il fidanzato, con le saccoccie gonfie di arance, di noci, di ciliegie secche; egli fa forza e si piega da un lato per tirar fuori tutte queste buone cose, le depone sulla panca accanto al focolare e dice: se il povero Moisè fosse qui! Serbategli questa mela cotogna che sembra d'oro.
    Pensando a questo valente giovane io mi sentivo intenerire. Egli era di buona famiglia, ma non poteva ancora sposare mia sorella perché appunto la sua famiglia non voleva, essendo egli troppo giovane e dovendo ancora fare il soldato. Era allegro, burlone, aveva le tasche sempre piene di frutta secche, e per questo io gli volevo molto bene. Mio padre diceva che il fidanzato di mia sorella aveva in saccoccia più nocciuole che quattrini; ma io appunto lo preferivo così. Egli mi raccontava storie terribili, di banditi, di cavalli verdi, della Madre dei Venti, e mi piaceva anche per questo.
    Una volta egli venne a trovarmi persino su nell'ovile, proprio all'antivigilia di Natale (mio padre era dovuto scendere in paese fin da quel giorno) stette fino al crepuscolo raccontandomi fiabe e storielle paurose. Egli mi diceva che i ragazzi non devono uscire di casa quando soffiano i venti, perché appunto allora la loro Madre, che gira assieme coi figli, porta via i viandanti deboli e gli esseri che non sono resistenti.
    Verso sera egli se ne andò. Io rimasi solo, e sebbene la sera fosse calma avevo paura di uscire. Mi coricai sotto il manto , e cominciai a pensare alla festa dell'indomani notte. Mi pareva di veder arrivare a casa il fidanzato, con le saccoccie piene di frutta; le campane suonavano, le donne cullavano i bimbi cantando:

    Su ninnicheddu,
    Non portat manteddu,
    Nemmancu curittu;
    In tempus de frittu
    No narat tittìa.
    Dormi, vida e coro,
    E reposa anninnia [1].

    La gente andava alla messa; e mi pareva di veder la chiesa illuminata da sette file di ceri e con gli altari adorni da rami d'arancio carichi di frutta. Al ritorno tutti sedevano sulle stuoie spiegate attorno al focolare, e la gran cena cominciava. Si mangiava il porchetto, il primo latte cagliato, il formaggio col miele; si beveva, si rideva.
    Poi gli uomini anziani, seduti a gambe in croce attorno al fuoco, improvvisavano canzoni, e i giovani ballavano il ballo tondo: cominciava l'impuddilonzu (la festa dell'albeggiare), e tutti sembravano folli di gioia, tutti ridevano e cantavano perché era nato Gesù e il demonio doveva sparire dalla terra.
    Io ero triste come una fiera sola nel bosco. Avevo undici anni ed era già il terzo Natale che passavo sul Monte; per me l'infanzia era davvero finita da un pezzo; eppure mi sentivo turbato come un bambino di cinque anni. A un tratto sento i maialini grugnire nella mandria, o meglio nel recinto di macigni ov'erano riparati! Un ladro? Il cane però, un grosso cane che sembrava un leone, legato ad un tronco d'albero, non abbaiava. Io ricordai le istruzioni ricevute da mio padre; quindi mi affacciai all'apertura della capanna chiamando "Basile" "Antoni" "Sarbadore" per far fuggire il ladro, al quale, gridando quei nomi, volevo far credere di essere in buona compagnia. Allora anche il cane cominciò ad abbaiare, e pareva parlasse e accusasse qualcuno; io però, se non avevo paura del ladro, ripensavo alle storie raccontate dal fidanzato di mia sorella, e non osavo avanzarmi.
    La notte era fredda, ma limpida; la luna saliva sul cielo d'argento e ci si vedeva come all'alba. Io mi feci coraggio, presi l'archibugio lungo due volte più di me, e uscii sullo spiazzo; ma d'un tratto mi parve di vedere poco distante da me un gruppo di cinghiali guidati da un uomo nero e tozzo; ricordai allora che negli antichi tempi, prima che gli uomini fossero maliziosi, il diavolo pascolava alla notte le anime dei malvagi trasformate in porci selvatici, e con paura corsi a rifugiarmi nella capanna. Che volete? Ero anch'io senza malizia, allora, come gli uomini degli antichi tempi: la malizia cominciò a venirmi due giorni dopo, quando mio padre ritornò, contò i maialini e trovandone uno di meno mi bastonò. Per la vergogna io non gli avevo raccontato nulla, né della visita del fidanzato, né delle sue storie paurose, né del rumore sentito alla notte, né del mio terrore superstizioso. Egli credeva che io avessi lasciato smarrire nel bosco il maialino, e mi bastonò per questo: se avesse saputo della mia paura e del mio stupido terrore mi avrebbe bastonato lo stesso e si sarebbe beffato di me.
    Ma chi cominciò a beffarsi di me, dopo quella volta, fu il fidanzato di mia sorella. Eppure egli non sapeva e non doveva saper nulla. E solo anni ed anni dopo, quando egli era diventato un uomo serio ed io un giovine pieno di malizia, tutti seppero il segreto di quella notte. Il maialino lo aveva rubato lui, il fidanzato, perché non aveva denari da comprarne uno; e l'indomani lo aveva regalato alla fidanzata, cioè a mia sorella. Era venuto su apposta, a raccontarmi le storie paurose, per impedirmi di uscire alla notte: mio padre, che era allora vecchio e pacifico come un patriarca, quando sentiva raccontare questa storia si faceva rosso per la stizza, pensando che aveva mangiato il suo maialino rubato; e voleva alzarsi dalla stuoia per corrermi dietro e bastonarmi ancora!».

    [1] Il bambinello,
    Non porta pannolini,
    Nemmeno corsetto;
    In tempo di freddo
    non dice «ho freddo».
    Dormi, vita e cuore,
    E riposa e fai la nanna.
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    IL PANE SOTTO LA NEVE
    meditazioni sull'Avvento e sul tempo di Natale di Tito Casini


    “NIX… PANEM… VERBUM„
    San Luca, l'evangelista dal bove, viene tra due grosse faccende, l'una il contrario dell'altra, dico tra una raccolta e una semina, ossia una fine, e un principio. Fine dei giorni del castagno: San Luca sbruca: diriccia, atterra i marroni e sfronda a fiati a fiati le piante, rendendo al suolo in frutti e foglie ciò che dal suolo, attraverso il fusto, salì alle cime in forma di succhi nel lento volger delle stagioni… Mentre il castagno sta per conchiuder l'annuo suo corso, s'inizia quello del grano. O mollo o asciutto, avverte un altro proverbio, per San Luca seminalo tutto.
    Per San Luca, cioè al diciotto di ottobre. È veramente, quest'ultimo, un proverbio che sa di fretta, un proverbio buono, semmai, per i luoghi più alti. Eccone un altro assai più agiato: Fino ai Santi, la sementa è per i campi: dai Santi in là, riportala a ca'. E un altro più agiato ancora: Per San Frediano (cioè un mese dopo San Luca), si semina a piena mano. Ma questo è l'ultimo, e chi avesse ancora gran da buttare dopo San Frediano meglio farebbe certamente a mandarlo al mulino: la neve è a passi: Per Santa Caterina (cinque giorni avanti dicembre), la neve alla collina.
    Tutti hanno seminato allorché con la sua ruota spezzata ritorna sul calendario la martire di Alessandria, e incomincia per tutti la grande attesa. Come il telo della massaia sul pane in lievito, posa sui seminati la neve. Sotto la neve, pane. È una sapienza antichissima, frutto di esperienza, che ha il suo riscontro e la sua conferma nella sapienza rivelata. Quomodo descendit nix de coelo et… dat panem… sic erit verbum meum… E ancora: Sicut frigus nivis in die messis, ita legatus fidelis, e al contrario: Quomodo nix in aestate et pluviae in messe, sie indecens est stulto gloria. Perciò l'uomo di campagna benedice, anziché maledire, la neve, anche se il freddo che ne patisce nelle membra gli fa ricordar con voglia i miti venti ai cui aliti già si apersero i ricci. Ciò che per lui il vello della pecora, è per i suoi seminati la neve. La neve, egli suole anche dire, è la lana dei campi (quasi traducendo dal salmo: qui dat nivem sicut lanam… e: Anno di neve, anno di bene.
    Tempo dunque di attesa, il tempo della neve.
    Che cosa ha fatto, fra l'ottobre e il novembre, e che cosa fa ora l'agricoltore? Ha fatto e fa quello che dice il Vangelo: «Il regno dei cieli è come un uomo il quale butti seme in terra, e la notte dorme e il giorno sta sveglio: e il seme barbica e cresce, ch'egli non sa come sia». Egli non sa come sia ma sa che è, e perciò dorme tranquillo, le lunghe notti invernali; perciò guarda tranquillo, nei brevi spazi del giorno, i suoi campi tutti coperti della frigida lana simile a lenzuolo di morte… Infatti, ecco che la neve è sparita (il Barbuto, il Frecciato, il Pettinato, come a dir fra Sant'Antonio e San Biagio, e il freddo è andato): salga o non salga sul monte, come gli consiglia un altro detto (Per San Sebastiano, il «Frecciato», sali il monte e guarda il piano), che cosa vede ormai intorno a sé il contadino? La neve s'è cambiata in grano; il gelido color dell'inverno, la sterile seminagion delle nubi, ha ceduto nei campi al tenero color della primavera, al verde che significa pane, che significa vita. L'attesa si è fatta dunque realtà; il desiderio si è fatto gioia; la preghiera, inno di gratitudine.

    Era forse quella la preghiera? Fu proprio nei giorni in cui, chiuse da poco le semente, s'aspettava la neve, fu lì d'intorno a Sant'Andrea, tra gli ultimi di novembre e i primi di dicembre, che s'incominciò a sentir quell'invocazione: Rorate, coeli, desuper… Aperiatur terra et germinet…: «Cieli, calate la rugiada… La terra s'apra e germogli». Quasi dicesse: il cielo mandi la neve, e dalla terra spunterà il pane… Quale pane attende la Chiesa, che così prega, e sotto qual neve si nasconde?.
    È questo, infatti, anche per la Chiesa, tempo di attesa. Anche la Chiesa, prima d'ora, ha seminato. Euntes, ibant et flebant, mittentes semina sua: «Andavan essi e piangevano, gettando la loro semente…» Erano i patriarchi, erano i profeti, da Adamo fino a Zaccaria, a Simeone, a Giovanni, che andavano seminando le loro lacrime di desiderio sulla terra sparsa di spine e triboli, con gli occhi rivolti al cielo, come il servo di Elia in cima al Carmelo, a spiar quella neve divinamente promessa madre del pane che salverà dalla morte.
    Qual'è dunque questa neve e qual è questo pane? «Una vergine partorirà». Una vergine: ecco la neve; partorirà: ed ecco il pane: il «pane vivo», il «pane di vita», che già s'inturgidisce nel ventre puro di lei, mentre in seno alla terra gonfia e barbica il grano; il pane che la Chiesa aspetta e invoca, con mille palpiti e mille voci, in questi giorni di universale aspettazione, e nascerà, fra poco, coetaneo col grano, convertendo nell'allegrezza del sicuro possesso le trepidazioni della speranza. Panis… qui de coelo descendit et dat vitam mundo: cioè Gesù Cristo, Dio e uomo, redentore e conservatore, che al Padre nasce eternamente, e nacque una volta da Maria, e nasce alla Chiesa ogni anno, col germinar del frumento, allorché il sole si fa a ripetere il suo corso.
    Rorate, coeli, desuper… Aperiatur terra et germinet… Se l'intenzione è diversa, le parole possono esser le stesse, per l'agricoltore e per la Chiesa tanto si rassomigliano o si raffigurano tra loro le due aspettazioni, quella del pane, che ora, nasconde la neve, e quella del Salvatore, che ora nasconde il sen di una vergine.
    Né si dissoceranno le immagini, o cesseranno di ricordarsi a vicenda, quando la neve e la vergine avran partorito. Le parole con cui Mosè annunziava al popolo il pane, il pane materiale che Dio stava per mandargli, quelle medesime usa la Chiesa per annunziare ai suoi figli che la vergine sta per esser madre, che il Salvatore sta per giungere: Hodie scietis quia veniet Dominus…: «Oggi saprete che il Signore verrà, e ci salverà, e domani vedrete la sua gloria…» Il luogo stesso dov'essa diverrà madre – Betlemme –, il letto stesso su cui deporrà il suo frutto – la paglia – parleranno di pane.
    Betlemme, «casa del pane». Steso sulle spoglie del pane, Colui che, fatto adulto, si definirà da sé come pane – «lo sono il pane » – già sembra che si confonda con la materia del pane, sembra che la paglia si componga con lui, che in lui abbia il suo compimento, la sua corona, la sua spiga, il suo frutto; e il gesto della madre che lo vezzeggia, che gli tende le braccia per portarselo al seno, è quello di chi raccoglie un manipolo… Ma che cos'è quel bianco piccolo disco che il sacerdote raccoglie ora dall'altare chinandovisi sopra come il legatore sul manipolo? Più bianco e alquanto difforme da quello che consumiamo a tavola, noi vediamo tuttavia ch'è pane… E perché dunque curvano tutti la testa ora che il sacerdote lo mostra, sollevandolo fra le mani, come la Vergine ai Re Magi il suo figliolo divino? Esso non è più pane: esso è Dio. Né è meraviglia che, essendo Dio, il sacerdote ne faccia ora suo cibo, dacché è Dio medesimo che lo vuole, Dio che ha dato al pane se stesso onde poter dare se stesso in pane.
    Così l'ombra si fa una cosa sola col corpo, l'apparenza con la sostanza, la figura col figurato: il frumento dell'uomo col frumento divino. Così s'avvera in ogni senso che sotto la neve sta il pane: il pane celeste in un col pane terreno; giacché una stessa semente contiene ciò che farà lieta un giorno la madia e ciò che farà santo il ciborio – come nel seno della Vergine stanno insieme il fanciullo di Betlemme e il Dio del Cenacolo. Così può e nelle parole e nell'intenzione accordarsi la preghiera dell'agricoltore con quella della Chiesa durante la stagione avventizia: Rorate, coeli, desuper et nubes pluant iustum; aperiatur terra et germinet salvatorem.
    Né occorre che dalla Chiesa l'agricoltore si disgiunga nei giorni del giubilo natalizio. Notum fecit Dominus, alleluia! salutare suum, alleluia! «Il Signore ha fatto ormai palese, alleluia! la sua salvezza, alleluia!» «La sua salvezza», cioè Gesù, il cui nome significa «salvatore». I campi, intorno alla chiesa, liberi ormai dalla neve, ripetono con innumerabili lingue la canzone del Signore che ha mutato in certezza, in visibile certezza, tutte le nostre speranze.

    Testo tratto da: TITO CASINI, Il Pane sotto la neve, Firenze: LEF, 1935/2, pp. 9-15.
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    Il bambino senza scarpe


    Era la notte Santa. Un povero calzolaio lavorava ancora nella sua unica stanza, dove viveva insieme alla moglie. Entro la mattina successiva, avrebbe dovuto consegnare un paio di scarpe per il figlio di un ricco signore.
    - Hai già pensato a quello che potremo comprarci con il guadagno di questo lavoro? - chiese il calzolaio alla moglie.
    - Sono piccole: ci daranno ben poco! - scherzò lei.
    - Accontentiamoci! Meglio questo che niente!
    Il calzolaio appoggiò le scarpe sul banco e se le guardò soddisfatto.
    - Guarda che meraviglia! - esclamò. - E senti come sono calde con questa pelliccetta dentro!
    - Un paio di scarpette degne di Gesù Bambino!
    - Hai ragione - rispose il calzolaio mettendosi a spazzolarle.
    - Allora, che cosa pensi di compare per il pranzo di domani? - riprese l'uomo dopo un attimo.
    - Mah... pensavo a un cappone.
    - Già, senza un cappone non sarebbe un vero Natale!
    - Forse anche mezzo...
    - D'accordo, e poi?
    - Due fette di prosciutto.
    - Sicuro: il prosciutto come antipasto. E poi?
    - E poi il dolce.
    - E poi la frutta secca...
    - Giusto. E da bere?
    - Una bottiglia di spumante.
    - Sì, una bottiglia basterà, ma che sia buono!
    A quel punto si sentì un colpo alla porta.
    - Hanno bussato? - chiese l'uomo.
    - Ma chi sarà a quest'ora? Forse il cliente...
    - No, gliele devo portare io domattina.
    - Allora sarà il vento.
    Ma il rumore si sentì di nuovo. La donna aprì la porta ed ebbe un moto di sorpresa. Un bambino la guardava, con grandi occhi neri, dalla soglia della porta. I suoi capelli erano tutti spettinati e i suoi vestiti erano laceri e sporchi.
    - Entra, piccolo - lo invitò la donna.
    Il bambino entrò. Aveva le labbra bluastre dal freddo. Il calzolaio guardò subito i suoi piedini. - Ma tu sei scalzo! - gridò.
    Il piccolo non parlò: guardò le scarpe, anzi le accarezzò con gli occhi, ma senza invidia.
    L'uomo e la moglie guardarono prima i piedi nudi del bambino e poi le scarpe sul tavolo; quindi la donna fece un cenno al marito. Il calzolaio prese in mano le scarpe, le osservò contento e disse: - Prendile, te le regalo. Sono morbide e calde.
    La moglie aiutò il bambino a infilarsele.
    - Grazie - rispose sorridendo. - Sono le prime che porto. Ora però devo andare. Buona notte.
    Il calzolaio e la moglie non ebbero neanche il tempo di salutarlo che il bambino era già sparito.
    - E' fatta - esclamò l'uomo. - Ora niente più prosciutto, né cappone, né frutta, nè dolce.
    - E neanche lo spumante! In fondo a me lo spumante non piace nemmeno.
    - E io non digerisco il cappone! Anche del prosciutto posso farne a meno. E il dolce poi... C'è rimasta qualche noce e un po' di pane raffermo - disse la donna.
    - Va benissimo. Passeremo un bel Natale.
    Tutti e due pensavano al bambino. - Penso che gli siano piaciute molto le mie scarpe - aggiunse il calzolaio.
    - Sì, mi sembrava molto contento.
    In quel momento suonò la Messa di mezzanotte e la stanza si illuminò all'improvviso. Il calzolaio e la moglie furono abbagliati da quella luce; poi, quando riaprirono gli occhi, nel punto in cui il bambino aveva calzato le scarpe, videro spuntare miracolosamente un abete con una stella in cima. Dai rami penzolavano capponi, prosciutti, dolci, frutta secca e bottiglie di spumante.
    Soltanto allora capirono chi fosse quel bambino e si inginocchiarono a ringraziare Dio.
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    L'asino, il bue e i chiodi di Gesù

    Vincenzo Cerami
    da "Avvenire"

    «Nacqui povero, in un villaggio pieno di spelonche e bicocche. Non avevo ancora compiuto sei anni quando, un inverno, mio padre portò le nostre bestie in una grotta vicina, dove un bambino aveva bisogno di essere riscaldato. Da allora, nella mia vita mi imbattei più volte nel Figlio dell'uomo»
    «Pochi mesi dopo, i soldati del re Erode cominciarono a fare strage dei piccoli con meno di due anni. La nostra famiglia si salvò, perché mio fratello ne aveva quattro.
    Anni più tardi, seppi che quell'uomo ne combinava di tutti i colori»

    A Gesù devo la mia attuale serenità, il mio benessere, la mia fortuna.
    È sempre stato molto presente in tutta la mia vita, fin dall’inizio, e ancora oggi, che ho una certa età, non faccio che ringraziarlo.
    A frotte vengono a trovarmi i cristiani.
    Aspettano che esca di casa per baciarmi le mani, senza dire una parola e senza neanche guardarmi in faccia. Io stendo il braccio, loro si inginocchiano e, con gli occhi gonfi di lacrime, se ne vanno come sono venuti, in silenzio.
    Sanno della mia somma riconoscenza, che sono stato miracolato da quell’uomo dall’infinità bontà. Oggi sono in pensione, ho quattro figli sparsi per il mondo, ognuno in pace con se stesso e dedito a costruirsi un futuro che mai avrebbero potuto avere se io, tanto, tanto tempo fa non avessi incontrato Gesù.

    Io sono nato povero, più povero di una foglia caduta dall’albero.
    Vivevo in un villaggio tra brulle colline in mezzo al niente. Dove abitavo io non c’erano case ma ruderi cadenti, grotte, bicocche tenute dritte da pali marci.
    I miei fratelli e io aiutavamo mio padre a cercare di nutrire bestie magre come trampoli, pecore, somari, galline e mucche.
    Di otto fratelli eravamo rimasti in tre, fame e disgrazie si erano portate via gli altri, nel giro di poche stagioni.

    Non avevo ancora compiuto sei anni quando sopraggiunse un inverno così feroce da meritarsi una lunga citazione nei memoriali dell’epoca. Venne giù addirittura la neve, sembrava di essere al polo nord.
    Non eravamo attrezzati, hai voglia a coprirti, la legna per il fuoco la bruciammo tutta in una settimana. Ricordo come fosse adesso l’ultimo falò davanti alla nostra stamberga, ricordo le lacrime di mia madre quando le portammo via il comodino e la sedia rimasta.
    Le notti tremavamo tutti e cinque, attaccati uno all’altro come abbracciati a un calorifero.
    Ma niente da fare, sentivamo che dentro di noi il sangue gelava pericolosamente e invece di scambiarci un po’ di tepore ci sembrava di dormire sulla neve. Solo il pianto ci arrossava appena le guance. Così piangevamo crollando dal sonno.

    Un giorno mio padre ebbe una bella idea, portò tutti noi nella stalla dov’erano ammucchiate le bestie. Come tetto c’erano stracci e l’aria, densa e tiepidiccia, puzzava da soffocare. Ci sdraiavamo tra gli animali, i piedi al calduccio, infilati nel loro sterco fumante.
    Andammo avanti così a lungo, aspettando la primavera.
    Una notte fui svegliato da un improvviso tramestio.
    Vidi che mio padre parlottava con alcune ombre mezze incappucciate.
    Discutevano fittamente e sottovoce. Alla fine quelli si portarono via una mucca e un asino, trascinandoli fuori legati con una corda.
    Chiesi spiegazioni a mio padre: mi disse che in una grotta vicina era appena nato un bambino e aveva bisogno di essere scaldato.
    Io lì per lì scoppiai a piangere di rabbia, per la prima volta vidi mio padre occuparsi delle sventure altrui, e questa novità mi spaventò profondamente. Non chiusi occhio perché senza quei due animali sentivo più freddo che mai.
    La mattina dopo volli andare a vedere che fine avevano fatto le nostre due bestie. Davanti alla grotta del neonato, nello slargo pieno di neve, c’era un sacco di gente, pastori, pastorelle, maniscalchi, calzolai, semplici curiosi e donne con la brocca sulla testa e in giro c’erano anche tante oche e somarelli con il basto.

    Mi feci largo piano piano finché mi fermai sulla soglia della grotta.
    Stava lì la mia bella mucchetta e masticava erba secca col muso sulla greppia.
    L’asinello invece era immobile dalla parte opposta, le palpebre a metà per il sonno. L’odore che sentivo era quello di casa mia, ma c’era anche un vago sentore di legno lavato e di miele.

    Seppi più tardi che quel bambino si chiamava Gesù, proprio quando riportarono indietro la mucca e l’asino.
    Furono mesi di trambusto quelli che seguirono, i soldati del re Erode andavano in giro ad ammazzare tutti i neonati sotto i due anni. Nostro padre stava tranquillo perché il mio fratello più piccolo ne aveva quattro passati.
    Quando chiesi perché il re di Gerusalemme aveva deciso di sgozzare i bambini piccoli, mi risposero che voleva togliere dalla circolazione quel Gesù: infatti molti dicevano che avrebbe un giorno preso il suo trono. Ma i genitori avevano portato la loro creatura lontano, addirittura in Egitto. Quello che non fece il freddo ai bambini lo fece Erode con la spada.
    La vita riprese come prima, e inverni così rigidi non tornarono più.
    Per anni di Gesù non seppi più nulla.
    La mucca non durò tanto a lungo, la mangiammo durante tutto l’inverno successivo dopo averla ben bene conservata a pezzi sotto sale. L’asinello morì molto più tardi, forse di vecchiaia perché aveva le ciglia bianche.

    La voce che Gesù ne combinava di tutti i colori arrivava sempre più insistentemente dalle mie parti. Molti ne parlavano male, pochi ne parlavano bene. Di vero c’era che a Gerusalemme, tra i magnati, sia indigeni che romani, cresceva una certa preoccupazione.
    Tanto che si andavano infoltendo alquanto le truppe dei soldati addetti alla sicurezza. Io ero diventato un giovanotto di muscoli, temprato da un vivere stento e faticoso.
    E in più, come tutti i giovani, scalpitavo, volevo lasciare le colline desolate per prendere di petto un altro futuro, per dare un diverso corso al mio destino.

    Mi arruolai, però mi misero a scuoiare conigli per gli affamati soldati di Roma. Non fa niente, da qualche parte bisogna pur cominciare, una casa si costruisce cominciando dalle fondamenta.
    Non vidi mai né il governatore Ponzio Pilato né Gesù Cristo, affondato com’ero nelle basse cucine del mondo.
    Ogni sera, con la pomice, mi scrostavo di dosso il sangue secco dei conigli e andavo a dormire.
    Si diceva che Gesù facesse dei miracoli, non ci credeva nessuno.
    Ma io, prima di addormentarmi, volevo sognare di incontrarlo per chiedergli il miracolo di farmi uscire dalla melma dov’ero finito, non certo meno nauseabonda di quella che avevo lasciato a Betlemme. D’altra parte io gli avevo prestato un po’ del mio calore.

    Passarono gli anni e finalmente mi dotarono di una spada e di uno scudo.
    Mi stava un po’ stretto l’elmo e non riuscii mai a trovare qualcuno disposto a fare cambio.
    Un giorno andai vestito così da mio padre, che mi accolse come un re.
    Squartò un agnello e facemmo mattina mandando giù mezza botte di vino.
    Gli parlai della mia carriera che cresceva come il grano sotto un cielo quasi sempre azzurro.
    Mio padre, ormai vecchio e coperto dalle cicatrici di mille malattie guarite dal sole e dai dolori, aveva negli occhi lo sbigottimento di chi sta facendo i conti con la morte.
    Piuttosto che parlarmi mi guardava.
    Solo alla fine provò a cucire un discorso. Mi parlò confusamente di obbedienza, senza mai nominare la legge o i superiori, nella gerarchia degli uomini a cui si deve ossequio.
    Negli ultimi anni aveva capito che il nutrimento necessario alla sete di gloria è senza sostanza se lo si sottrae agli altri. Non si era mai espresso così.
    Mia madre, alle sue spalle, mi faceva segno di lasciarlo parlare.
    Più tardi, in disparte, mi riferì che il marito aveva preso la vecchiaia contropelo e che presto ci avrebbe lasciato. L’ultima volta che l’ho visto neanche mi ha riconosciuto. Ha chiuso gli occhi guardando le nuvole.
    Pensai che facciamo tutti una brutta fine, perché una sola è la sorte per i figli dell’uomo e per le bestie: la morte.
    Così, fedele alle parole di Qohélet, decisi di buttare ogni mia forza a procurarmi felicità da vivo.

    Tornato nel brulicare di tutti i giorni non mi lasciavo sfuggire la minima occasione per accaparrare qualcosa. Ci dedicai tanto di quello zelo che riuscii perfino a mettere da parte poche preziose monete. I miei superiori finalmente si accorsero di me, sapevano di poter contare sulla mia onestà e fedeltà.
    Mi misero alla prova facendomi fare la guardia di qua e di là o il carceriere, e ogni tanto mi mandavano in missione o in perlustrazione nelle zone più lontane. L’unico cruccio era quell’elmo troppo piccolo e ballonzolante, che dovevo tenere fermo con la mano quando correvo.

    Ed ecco giungere inatteso il giorno più fortunato della mia vita, il miracolo che tanto aspettavo. Avevano catturato, processato e condannato a morte Gesù. Potevo finalmente vederlo, perché facevo parte del servizio d’ordine nel tragitto che il criminale doveva fare, con la croce sulle spalle e una corona di spine intorno alla fronte, fino al monte Calvario.
    Stavo lì a tenere a bada la folla che si accalcava sul sentiero. La voce m’era andata via a forza di gridare a questo e a quello. Fui contento quando il mio diretto superiore mi fece un cenno di approvazione. Mi vedeva saltare da una parte all’altra con la frusta in mano, dando spallate a chi si avvicinava troppo.
    Molti infatti volevano dar calci al prigioniero, mentre altri, al contrario, si facevano avanti per aiutarlo a rialzarsi quando cadeva a terra senza più forze.

    Arrivati sul luogo della pena, bisognava inchiodare Gesù alla croce.
    E quando vidi che tra i miei commilitoni qualcuno esitava, mi feci subito avanti.
    Nessuno era più avvezzo al sangue di me, che avevo sgozzato migliaia di conigli. Accettammo in quattro. La croce era adagiata sul pietrisco. Due si occuparono dei piedi, io e un altro delle mani.
    A me toccò la mano sinistra.

    Il cielo girò e si mise sul brutto.
    Devo dire che Gesù si lasciò fare, non provò nemmeno a tirare indietro il braccio e questo mi facilitò il compito. Il chiodo era di quelli grossi, un po’ arrugginito. Lo puntai proprio al centro del palmo e con pochi colpi lo conficcai fino in fondo.
    Gesù, seppure maciullato e con il volto rigato di sangue, mi guardava, guardava solo me.
    Picchiavo con il martello e gli dicevo piano che da piccolo, quando lui era appena nato, gli avevo prestato la mia mucca e il mio asino.


    Lui trovò la forza di sorridermi, appena un attimo.

    Poi, quando abbiamo tirato su la croce, ho pensato che il coraggio di inchiodarlo me l’aveva data proprio la sua magia, forse per ripagarmi del freddo di quella notte.

    La mia vita cambiò in un batter d’occhio.

    Ero ammirato dai miei capi per l’obbedienza e la prontezza con cui avevo accettato un così delicato incarico.
    E sono amato anche dai cristiani, che certo non possono rimproverarmi per aver fatto il mio dovere di soldato.
    Oggi sono a riposo e quelli che passano di qua per rendermi omaggio, mi dicono tutti di dormire sonni tranquilli perché non sapevo quello che stavo facendo.
    Sono felice e con l’anima in pace.
    E di questo ringrazierò Gesù fino all’ultimo dei miei giorni.
    Per gentile concessione di
    ex tomtom
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    Una cosa dell'altro mondo
    testo di Gregorio Curto – disegni di Antonella Barbafiera
    E’ una notte d’inverno fredda e tersa
    che da molte altre in nulla par diversa,
    Andrea il pastor col figlio suo Giovanni,
    come è solito ormai da molti anni,
    presso un gran fuoco veglia sul suo gregge
    che da lupi voraci ben protegge.
    “Papà – sbotta d’un tratto il ragazzino,
    che emozionato gli si fa vicino –
    guarda lassù tra le stelle di Orione
    che grande luce e che rara visione!”.
    Altri curiosi intanto nel gran gelo
    hanno fissato il loro sguardo al cielo,
    dove splendente ai semplici pastori
    una gran schiera di angeli cantori
    appare ad annunziar: “Sia in terra pace
    e gloria in cielo, come a Dio più piace:
    in Betlem nato è il vostro Salvatore
    che in una grotta sta, Cristo Signore;
    motivo certo di perenne gioia,
    lo troverete in una mangiatoia”.
    Affretta il passo Andrea col figlioletto
    e nella grotta, come è stato detto,
    in una mangiatoia con gran stupore
    trova in fasce del mondo il Salvatore.
    * * *
    Bianche le strade e i tetti delle case
    da un’abbondante nevicata invase;
    il piccolo Giovanni dà la mano
    al padre Andrea che attento, piano piano,
    si incammina con lui verso la chiesa.
    Prima di mezzanotte è lì che è attesa
    una gran folla esuberante e in festa
    che vorrà a lungo rimanere desta.
    “Sono stanco, papà, perchè non porti
    sulle tue spalle, che son larghe e forti,
    me che vedi sfinito ad assonnato
    per l’ora tarda e molto affaticato?”.
    “Quasi ci siamo – dice Andrea – cammina,
    la cattedrale è ormai proprio vicina;
    la notte santa che per noi si appresta
    sarà notte di gaudio e di gran festa”.
    La mamma intanto a casa con affetto
    tien tra le braccia un altro figlioletto:
    di Giovanni il neonato fratellino
    è un piccolo – anche lui – Gesù Bambino.
    Una nascita a Beltlem nel passato
    dà senso e luce ad ogni nuovo nato:
    dell’altro mondo, se guardiamo a fondo,
    è una cosa venuta in questo mondo.

    ex tomtom
    ex comics





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