Il bullismo si pratica anche su Facebook e sui cellulari. Uno studio lancia l'allarme: vittime a rischio depressione.
Sgambetti, spintoni, punizioni spesso crudeli: le tradizionali armi del bullismo adolescenziale possono essere sostituite oggi da forme di persecuzione che passano attraverso Internet. E' il cyberbullismo, inflitto sui social network e sui telefonini, una forma di molestia sempre più diffusa che può fare anche più male del bullismo “tradizionale”. Lo afferma uno studio pubblicato ieri negli Stati Uniti dal National Institute of Child Health and Human Development, ma lo dimostra anche la cronaca.
Phoebe Prince aveva 15 anni quando si è impiccata, a gennaio, dopo un lungo calvario fatto anche di molestie verbali veicolate da Facebook e messaggi di testo. Era emigrata dall'Irlanda al Massachussets, in cerca di una nuova vita e un'occasione per il suo futuro: “irish slut” (sgualdrina irlandese) la chiamavano molte compagne a scuola, ma gli insulti la raggiungevano anche a casa, sul suo telefonino, sul suo computer. Il caso ha fatto scalpore e ha acceso l'attenzione dei media e degli studiosi sul fenomeno.
Le vittime di questo tipo di bullismo, sostiene lo studio pubblicato sulla rivista Adolescent Health, sono molto più a rischio di depressione, si sentono prive di via d'uscita, ed è molto più difficile individuarle. Secondo Ronald J. Iannotti, uno degli studiosi che ha interrogato circa settemila studenti per questa ricerca, il bullismo tradizionale “avviene sempre faccia a faccia”, mentre quello che si sperimenta online è calato in una dimensione più “disumanizzata”. Chi lo subisce, ha dichiarato il ricercatore al Washington Post, si sente “più solo, privo di difese nel momento in cui è attaccato”. Il fenomeno si concentrerebbe, negli USA, negli anni che corrispondono alla scuola media italiana, una fase particolarmente delicata per la formazione della personalità adulta. In uno studio precedente, Iannotti aveva rilevato anche la dimensione del problema: il 14 per cento degli studenti intervistati aveva dichiarato di essere stato coinvolto in episodi di cyberbullismo, come vittima, persecutore, o in entrambi i ruoli. Una percentuale non molto lontana rispetto a quella di chi denunciava soprusi fisici (il 20 per cento), e che fa crescere i numeri di chi subisce, in generale, molestie verbali ed emarginazione (50 per cento).
Un vero ritratto infernale questo delle scuole medie americane, molto vicino alle più odiose rappresentazioni dei film e ai peggiori racconti di cronaca. Le vittime più probabili del cyberbullismo sono le ragazze, ma, di qualunque sesso siano, il rischio di depressione è identico. Anche chi è sottoposto a pratiche di bullismo tradizionale, naturalmente, può incorrere in crisi depressive, che ostacolano il rendimento scolastico e la socialità. Un rischio che, tra l'altro, può colpire con altrettanta frequenza i cosiddetti “bulli-vittime”, persone che hanno subito, ma anche inflitto, persecuzioni. Nel caso del cyberbullismo, però, è sempre chi subisce a essere più in pericolo.
Come spezzare questa solitudine? La risposta degli esperti è abbastanza prevedibile: occorre che mamme e papà controllino, capiscano, partecipino a quel che accade ai ragazzi. Esiste un nesso inversamente proporzionale, secondo lo studioso Jing Wang, tra il coinvolgimento dei genitori e i fenomeni di bullismo, di ogni tipo. In fondo, non c'è nulla di davvero nuovo nei dati emersi da questo studio. La vita sociale dei giovani si svolge sempre più su territori virtuali, ed è impensabile che su questi si riversino solamente le cose positive e che restino impermeabili agli aspetti più negativi. Purtroppo, sono territori che possono restare nascosti a genitori e insegnanti, in prima linea nella lotta a queste forme di persecuzione.
L'incontro tra il web e il bullismo tradizionale è avvenuto già da molto tempo, amplificandone danni e contraddizioni, e questo incontro ha trovato proprio in Italia il suo epicentro mondiale. Nel febbraio di quest'anno, infatti, una sentenza del tribunale di Milano ha condannato alcuni dirigenti di Google per non avere tempestivamente rimosso dal proprio sito, nel 2006, un video che mostrava sevizie a un ragazzo autistico, in una scuola di Torino. Ma Internet e i social network somigliano sempre di più alle vita nelle nostre strade. E, come le strade, sembra impossibile tenerla pulita.
La Stampa
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