Il viaggio di Liliana Segre non è ancora finito. Anche se oggi ha ottant’anni, i capelli candidi, gli occhiali che le danno un’aria da anziana signora finalmente in pace, si sente ancora «la nonna di me stessa», come racconta nel film di Andrea Jarach «Binario 21».







Su quel binario nei sotterranei bui della stazione Centrale, a Milano, dove per decenni sono rimaste assopite coscienze insensibili a offese mostruose, Liliana Segre è tornata ieri. E anche se non era la prima volta, per lei, è stata un’occasione speciale. C’è venuta per inaugurare quel monumento, si spera inchiodato per sempre a un binario morto - un vagone piombato, il filo spinato là in alto -, che ricorda quelli che non tornarono da Auschwitz










Era una bambina, Liliana Segre, quando partì. Aveva tredici anni e non sapeva ancora che essere ebrea, anche se italiana, fosse una colpa grave. Su quel treno, il 30 gennaio 1944, erano in seicentocinque. Quattrocentosettantasette tra i quali suo padre furono uccisi all’arrivo ad Auschwitz. Altri 108 morirono prima della liberazione e dell’arrivo dei russi. Alla fine della guerra torneranno in venti. Troveranno per anni porte chiuse, insensibili al dolore e alla memoria. La prima stesura del libro di Primo Levi «Se questo è un uomo» venne rifiutata dagli editori. Liliana Segre aspetterà cinquant’anni, prima di farsi «memoria» da sé.