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Modifiche alla disciplina delle pensioni di inabilità
La legge 24 dicembre 2012, n. 228: Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato, entrata in vigore il 1° gennaio 2013, all’articolo 1, comma 240, ha apportato modifiche alla disciplina delle pensioni di inabilità di cui all’articolo 2 della legge 12 giugno 1984, n. 222 nell’ipotesi in cui il richiedente abbia contribuzione accreditata in due o più forme assicurative Il comma 240 dispone che “Per i soggetti iscritti a due o più forme di assicurazione obbligatoria per invalidità, vecchiaia e superstiti dei lavoratori dipendenti, autonomi, e degli iscritti alla gestione separata di cui all’articolo 2, comma 26, della legge 8 agosto 1995, n. 335, e alle forme sostitutive ed esclusive della medesima, il trattamento di inabilità di cui all’articolo 2 della legge 12 giugno 1984, n. 222, è liquidato tenendo conto di tutta la contribuzione disponibile nelle gestioni interessate, ancorchè tali soggetti abbiano maturato i requisiti contributivi per la pensione di inabilità in una di dette gestioni“. I destinatari della disposizione in esame sono i soggetti, iscritti a due o più forme assicurative individuate dalla stessa norma, che presentano domanda di pensione di inabilità dal 1° gennaio 2013 o, nel caso in cui la domanda sia stata presentata in attività di servizio da parte dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche iscritti alla Gestione dei Dipendenti Pubblici, dalla cessazione dal servizio intervenuta in data successiva al 1° gennaio 2013 Il menzionato comma 240 dispone la liquidazione della pensione di inabilità tenendo conto di tutta la contribuzione disponibile. Per contribuzione disponibile si intende quella non utilizzata per la liquidazione di un trattamento pensionistico. Viceversa non sono disponibili i contributi utilizzabili per la liquidazione di supplementi di pensione. La domanda di pensione di inabilità va presentata all’ente gestore della forma assicurativa a cui da ultimo il lavoratore è iscritto. Tale ente promuove il procedimento, provvedendo all’accertamento della sussistenza dei requisiti sanitari e amministrativi previsti dalla legge n. 222 del 1984.
Per forma assicurativa di ultima iscrizione deve intendersi la gestione dove risulta accreditata l’ultima contribuzione a favore del lavoratore. Qualora al momento della domanda di pensione il lavoratore dovesse risultare iscritto a più gestioni, sceglie la gestione presso cui presentare la domanda.
Pertanto, dopo aver acquisito il parere sanitario che riconosce la sussistenza dello stato di inabile in favore del richiedente, dovrà essere data comunicazione agli altri Enti/gestioni interessati affinchè comunichino le quote di pensione di propria competenza. Fermi restando i requisiti amministrativi e sanitari di cui alla legge n. 222 del 1984, la verifica dei primi deve essere effettuata tenendo conto di tutti i periodi contributivi presenti nelle forme assicurative individuate dalla stessa norma. In caso di periodi contributivi coincidenti si dovrà tener conto degli stessi una sola volta. Per i dipendenti delle amministrazioni pubbliche iscritti alla Gestione dei Dipendenti Pubblici, qualora la domanda di pensione di inabilità venga presentata dal dipendente in attività di servizio al proprio datore di lavoro, l’interessato dovrà indicare gli eventuali periodi di contribuzione versata o accreditata presso altre forme assicurative previste dal più volte citato comma 240. La misura del trattamento pensionistico di inabilità si compone di due quote:
a) una quota riferita all’anzianità contributiva maturata dall’assicurato fino alla data di decorrenza della pensione di inabilità; b) una quota costituita dalla maggiorazione convenzionale dell’importo di cui alla lettera a) (v. articolo 2, comma 3, della legge 12 giugno 1984, n. 222). Per la quantificazione di tale maggiorazione occorre tener conto di tutta la contribuzione disponibile nelle gestioni assicurative. Per quanto riguarda le modalità di calcolo si ribadiscono i criteri già operanti. In ogni caso non può essere computata un’anzianità contributiva complessiva superiore a 40 anni. Per i dipendenti delle amministrazioni pubbliche iscritti alla Gestione Dipendenti Pubblici l’importo del trattamento di pensione di inabilità non può superare l’ottanta per cento della base pensionabile né l’ammontare del trattamento privilegiato spettante, ove applicabile tale tipologia di pensione, in caso di inabilità riconosciuta dipendente da causa di servizio (articolo 9, comma 4, del DM n. 187/1997). La pensione di inabilità viene liquidata ed erogata dalla gestione nella quale il lavoratore è iscritto al momento del verificarsi dello stato inabilitante con le modalità da questa previste. Nel calcolo della quota di maggiorazione convenzionale, per determinare la quota di contribuzione, ai sensi dell’articolo 1, comma 15, della legge 8 agosto 1995, n. 335, rilevano esclusivamente le retribuzioni esistenti in tale gestione. La decorrenza della pensione di inabilità è attribuita secondo i criteri vigenti nella gestione nella quale il lavoratore è iscritto al momento del verificarsi dello stato inabilitante. La domanda di pensione di inabilità può contenere in subordine la richiesta di assegno ordinario di invalidità. I provvedimenti assunti dall’Ente istruttore potranno essere impugnati in sede di ricorso amministrativo con le modalità previste per gli altri provvedimenti di competenza della gestione liquidatrice.
Tecnica della scuola
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Ma quanto costa mandare i prof in pensione prima?
Al ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca avrebbero finalmente deciso – riconoscendo implicitamente i notevoli limiti del mastodontico servizio informativo interno (SIDI) – di venire a capo di un mistero che da tempo è senza soluzione per parlamentari, tecnici dello stesso dicastero e dell’Inps.
Un mistero che non ha permesso fino ad oggi di trasformare in legge una proposta, sostenuta dalla stragrande maggioranza dei parlamentari, finalizzata a consentire al personale della scuola, che si riconosce nel movimento «Quota 96», di accedere al trattamento pensionistico di vecchiaia o di anzianità con i requisiti richiesti dalla previgente normativa previgente l’entrata in vigore del decreto legge 201/2011 (riforma Fornero). Per svelare il mistero, l’Istruzione ha indetto una raccolta telematica di adesioni degli eventuali interessati (nota prot. 2085 del 1° ottobre 2013), così da determinare una volta per tutte la platea. L’obiettivo è sapere quanti realmente siano i dirigenti scolastici, i docenti e il personale amministrativo, tecnico ed ausiliario che, alla data del 31 dicembre 2011, avevano maturato i requisiti della vecchia normativa. Quanti siano quelli che li hanno maturati entro il 31 agosto 2012 ed entro il 31 dicembre 2012. Quanti, tra quelli che li possiedono, sarebbero interessati a cessare dal servizio dal 1° settembre 2014. A causa della incertezza sui numeri il legislatore non è stato in grado di determinare gli oneri derivanti da un intervento normativo volto appunto a consentire l’uscita anticipata rispetto a quanto poi previsto dalla legge Fornero. In verità, una determinazione di costi è stata fatta, ma è tale da non consentire alla Ragioneria di certificare la sostenibilità finanziaria dell’operazione. Alla base della mancata certificazione, vi sono le stime dell’Inps: l’istituto guidato da Antonio Mastrapasqua ha indicato in 9 mila i docenti con i requisiti pre Fornero. Per il dicastero guidato da Maria Chiara Carrozza sarebbero molti di meno, e con il censimento on line si appresta a dimostrarlo.
I vecchi requisiti, come è stato più volte ricordato su queste pagine, sono: per accedere alla pensione di anzianità, 60 anni di età e 36 anni di anzianità contributiva o 61 anni di età e 35 di contribuzione o, indipendentemente dall’età anagrafica 40 anni di anzianità contributiva; per accedere alla pensione di vecchiaia, 65 anni per gli uomini e 61 per le donne, unitamente a non meno di 20 anni di contribuzione.
Coloro i quali siano in possesso dei requisiti anagrafici e contributivi previgenti la riforma Fornero, e volessero manifestare la volontà di cessare dal servizio, si legge nella nota ministeriale, devono presentare, entro il 15 ottobre, alla segreteria dell’istituto scolastico di servizio o, nel caso di personale collocato fuori ruolo, all’ufficio provinciale di propria competenza, una dichiarazione in forma cartacea in cui attestino di avere maturato i requisiti necessari e di volersene avvalere a decorrere dal 1° settembre 2014.
Opportunamente la nota precisa che una tale manifestazione di volontà non ha alcun valore di istanza di cessazione dal servizio, ma esclusivamente fini conoscitivi. La mancanza di una fissazione dei termini entro i quali le istituzioni scolastiche e gli uffici scolastici provinciali devono verificare l’effettivo possesso dei requisiti richiesti dagli interessati e trasmettere le dichiarazioni al SIDI non garantisce, purtroppo, il raggiungimento dello scopo in tempi brevi quali la situazione richiederebbe. Ancora una volta, pertanto, una apprezzabile iniziativa del dipartimento per l’istruzione, diretto da Luciano Chiappetta, viene lasciata nella indeterminatezza degli adempimenti ed affidata alla buona volontà di tutte le parti coinvolte. Per giovedì prossimo intanto è stato convocato dalla XI commissione della camera il Comitato ristretto. Obiettivo: verificare i profili di «Quota 96».
Edscuola
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Certezza dell’incertezza e l’Ue non c’entra con le pensioni
Secondo il commissario europeo alla giustizia Viviane Reding, la norma italiana sulle pensioni, in arrivo a gennaio, è in contrasto con l’articolo 157 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea che stabilisce la parità di trattamento tra uomini e donne. L’Italia è messa in mora: che succederà? E come è noto ormai, soprattutto ai diretti interessati, le disposizioni contenute nella legge 214 del 2011 in base alle quali gli anni minimi di contribuzione per ottenere la pensione prima di arrivare all’età massima, fissati in 41 e 3 mesi per le donne e 42 e 3 mesi per gli uomini, sono in contraddizione con quanto stabilisce l’Ue in omaggio al principio di parità. Questo significa che l’Italia è messa in mora se non provvede a equiparare lo squilibrio uomo-donna, garantendo a tutti parità di trattamento. Tuttavia ora il problema sta nel vedere cosa stabilirà il governo, se cioè si orienterà ad abbassare l’età, per concedere la pensione anche agli uomini, o ad innalzarla alle donne per raggiungere l’equilibrio. Marialuisa Gnecchi, capogruppo Pd nella commissione Lavoro, si augura che si abbassino i requisiti per gli uomini: “L’esperienza del 2009, quando la Commissione Europea aprì una procedura di infrazione contro l’Italia in difesa delle donne auspicando migliori retribuzioni e migliori pensioni, fu utilizzata dal governo Berlusconi per innalzare l’età della pensione delle donne nella Pubblica amministrazione. Ci auguriamo che questo intervento dell’Unione europea serva a portare anche per gli uomini a 41 gli anni di contribuzione per il pensionamento anticipato e non si trasformi in una ulteriore penalizzazione delle donne”. Un augurio che però per i lavoratori della scuola, che hanno già deciso di andare in pensione il prossimo 1 settembre, significa poco, anzi fa aumentare l’apprensione per il futuro, mentre, se bene si riflette, questa faccenda, riferita soprattutto al personale femminile della “Quota 96”, ha il solo esclusivo valore dello scherzetto di Halloween, considerato che il dolcetto rischia di allontanarsi. E infatti, vogliamo ricordare che le lavoratrici di “Quota 96”, dopo due anni di lotte e di promesse, di lusinghe e oblii, si erano rassegnate, in omaggio al frastagliato ingarbuglio della legge Fornero, a ritirarsi dal lavoro al 31 agosto 2014. Di certo, nelle incertezze forneriane e negli ammiccamenti dei politici ubertosi di promesse per risolvere il caso “Quota 96”, avevano questa sola certezza, almeno: uscirsene, così come la legge garantiva. La loro domanda a questo punto è: e se l’Italia sotto lo scacco dell’infrazione Ue alzasse ancora di un anno alle donne la soglia per andare in pensione? Che non è domanda retorica, ma angoscia per il futuro e consapevolezza che in questa Nazione di naviganti e di eroi, a fare i santi martiri sono rimaste solo le donne. Ma non solo, si confermerebbe ancora una volta che nel nostro Paese non c’è alcuna certezza, né di diritto, né di fatto. Appare ancora peggio di quella nave in gran tempesta e ancora più abominevole di quella donna non di provincia. E appare inoltre crudelmente manifesto che non si possono tenere le persone all’amo per anni, senza concedere loro nemmeno una lieve certezza, che è un diritto perfino delle docenti, femmine; il diritto cullato finora e sul quale hanno contato, sapendo, per giuramento legale di una legge, di potere uscire a 41 anni e 3 mesi di contribuzione. Come si fa, se malauguratamente si decidesse a innalzare l’età contributiva, a frenare la giusta indignazione di queste donne, condannando molte altre a ben più gravi conseguenze? Come è possibile tenere ancora, a distanza di due mesi, nella incertezza una si variegata platea di persone? Ma chiediamo soprattutto: possibile che non ci si renda conto che i cittadini di questa nostra Repubblica debbano vivere giorno per giorno nelle più assoluta incertezza, senza che nessuno si prenda la briga di dare almeno, nel bene e nel male, un tarì di certo diritto?
Tecnica della scuola
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I pensionati possono dormire sonni tranquilli, o quasi
Le pensioni dell’Inps non sono più in discussione. “Le pensioni Inps sono pagate oggi e lo saranno per sempre”. Così il Presidente dell’Inps A. Mastrapasqua, dopo aver affermato che “i conti non danno tranquillità”, fa marcia indietro. E sottolinea che “non c’è rischio finanziario”
E’ vero che l’istituto ha un passivo di 10 miliardi (dovuto in gran parte alla fusione con l’Inpdap), ma quei soldi “ce li darà lo Stato”. Col passivo di oltre 9 mld raggiunto con l’accorpamento di Inpdap ed Enpals, Mastrapasqua ha precisato che “lo Stato ci dà questi 9 mld, quindi non c’è nessun problema”. Insomma nessun buco nei conti: “Le pensioni sono un contratto tra lo Stato e i lavoratori che lavorano e successivamente andranno in pensione. Il problema finanziario non esiste, ma è solo un problema prettamente contabile di rappresentazione nel bilancio di questa partita dell’Inpdap”. Saranno quindi le casse pubbliche a colmare gli squilibri dell’Inps. Ma, al di là del rapporto tra entrare e uscite, quanto ci costa la macchina Inps? L’intera struttura più o meno 5 miliardi l’anno. E’ vero, Mastrapasqua ha tentato di ridurre i costi, ha azzerato le consulenze. Ma le spese restano esorbitanti. Leggendo il bilancio preventivo 2013, si notano esborsi che suonano ancora fuori misura. Si scoprono spese che raccontano l’arretratezza della pubblica amministrazione italiana. Perché meno della metà di quei 5 miliardi sta nel costo del personale. Il resto sta in un labirinto di voci che si stratificano fino a toccare una cifra che vale quanto due volte l’abolizione dell’Imu. Bollette care per l’Istituto: le spese per utenza, acqua, illuminazione e riscaldamento sfiorano i 40 milioni l’anno. Gli affitti sono stati azzerati alla voce “risorse strumentali”, ma si sono moltiplicati quelli relativi a “centro di responsabilità altre strutture di Direzione Generale”: uffici in affitto per 67 milioni. Che si aggiungono ai 64 che l’Inps paga per immobili che una volta possedeva. Tutto ciò risale al 2005, quando il governo Berlusconi-Tremonti impose la cessione degli immobili al Fip (un fondo creato ad hoc per valorizzare e razionalizzare le risorse, che ha poi costretto l’Istituto a sobbarcarsi l’affitto. E infine una sorpresa. Per il 2013 l’Inps ha crediti da riscuotere per 134 miliardi e passivi per 109. Se dovessero rientrare tutti i soldi dovuto, bene. Ma se si scoprisse che parte di essi sono inesigibili, il buco si allargherebbe. Ma, come dice Mastrapasqua, non ci sono rischi. Paga lo Stato.
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Domande di pensione entro il 27 gennaio
Lo ha annunciato in queste ore il Ministero nel corso di un incontro con i sindacati. Ma la nota non è ancora stata firmata ufficialmente e i sindacati chiedono una proroga.
Nella mattinata del 13 dicembre i tecnici del Miur hanno incontrato le organizzazione sindacali per parlare delle operazioni connesse con i pensionamenti del personale per il prossimo anno scolastico. Secondo quanto riferisce CislScuola l’Amministrazione ha già consegnato ai sindacati una bozza di nota che sostanzialmente ricalca quella dello scorso anno e che fissa al 27 gennaio prossimo la data ultima per la presentazione Per i Dirigenti scolastici i termini sono regolamentati da un contratto diverso e sono fissati a 28 febbraio 2014. I sindacati hanno chiesto che i termini per docenti e Ata venga prorogato di una settimana almeno anche al fine di agevolare l’accesso ai Patronati per la presentazione telematica delle domande. Ma la questione più delicata riguarda il calcolo dell’effettivo servizio. Il DL 101/2013, infatti, ha modificato alcune disposizioni precedenti ricomprendendo nell’anzianità contributiva anche le assenze per donazioni di sangue e congedo parentale/astensione facoltativa. Periodi che si aggiungono alla maternità, al servizio militare, agli infortuni, alla malattia e alla cassa integrazione, già previsti dal decreto-legge 216/2011. “A conclusione dell’incontro – rende noto CislScuola – è stato sollecitato un ulteriore confronto sull’applicazione delle norme che riconoscono ai docenti in esubero la possibilità di andare in pensione con i requisiti precedenti la Riforma Fornero” Nulla di fatto invece sulla questione “Quota 96” che sembra ormai destinata ad una non-soluzione a meno che in concomitanza con l’approvazione della legge di stabilità il Governo non decida di tirare fuori il coniglio dal cappello. Ma non ci sembra proprio che questi siano tempi in cui ci si possano attendere magie di questo genere.
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Domande per il pensionamento entro il 7 febbraio 2014
La Flc-Cgil comunica che sarebbero in procinto di essere pubblicati dal Miur il decreto e la circolare relativi alle procedure per la cessazione dal servizio dal 1° settembre 2014 per il personale della scuola. Il termine ultimo per la presentazione della domanda al 7 febbraio 2014
Il Più il sindacato fa presente che sta chiedendo l’estensione al 2016 della cosiddetta “opzione donna” (57 anni di età e 35 di servizio), con maturazione del diritto alla pensione entro il 31 dicembre 2015.
Ma ha pure insistito affinchè la circolare riportasse la recente normativa migliorativa delle penalizzazioni previste per chi accede alla pensione anticipata prima dei 62 anni: permessi per la donazione del sangue, per utilizzo dell’ astensione facoltativa per maternità, permessi previsti dalla legge ex 104 (in via di approvazione nella legge di stabilità).
La FLC CGIL ha chiesto che la norma sui lavoratori salvaguardati che erano in legge 104 al 31 dicembre 2011 recepisca l’estensione alla maturazione della quota 96, oltre a quella dei 40 anni di servizio, per andare in pensione con i requisiti ante Riforma Fornero.
Tutte le organizzazioni sindacali infine, dice sempre la Flc, hanno sollecitato un “tavolo sugli esuberi” nella scuola che licenziasse una intesa sull’applicazione all’articoloart. 17, comma 20 bis del DL 95/12 (spending review), recepito nella legge 128/13,in materia di pensionamento con i vecchi requisiti per i lavoratori appartenenti a classi di concorso in esubero
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“Quota 96”, la suprema Corte dice no!
Con Ordinanza 318/2013 depositata il 17/12/2013 la Corte Costituzionale non riconosce al personale della scuola della “Quota 96” il diritto alla pensione. Tutto torna in mano alla politica, se ad essa piaccia
La Consulta dunque nella sentenza emessa oggi, 17 dicembre, dichiara la “manifesta inammissibilità” della questione di legittimità costituzionale dell’art. 24, ma non entra affatto, tuona il prof. Giuseppe Grasso dal blog dei “Quota 96”, nel merito dell’ordinanza emessa dal Tribunale del Lavoro di Siena, che aveva accolto la richiesta di pensionamento di una docente, e quindi viene giudicata “manifestamente inammissibile per una pluralità di ragioni”. “Ritenuto che nel corso di una controversia di natura previdenziale proposta da una docente a tempo indeterminato nei confronti del Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca, il Tribunale ordinario di Siena, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3, 11, 38, 97 e 117, primo comma, della Costituzione – quest’ultimo richiamato in relazione all’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata con la legge 4 agosto 1955, n. 848 – questione di legittimità costituzionale dell’art. 24, comma 3, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 22 dicembre 2011, n. 214, «nella parte in cui non appresta per il lavoratore pubblico una gradualità di uscita al pari del lavoratore privato, in ogni caso nella parte in cui (comma 3) non differenzia, con particolare riguardo al settore scolastico, rispetto alla data del 31 dicembre 2011, il dies ad quem della maturazione dei requisiti pensionistici secondo la normativa previgente»; che il Tribunale di Siena osserva come la lavoratrice ricorrente avrebbe avuto diritto, in base alla previgente normativa, ad essere collocata in pensione alla data richiesta; infatti, secondo la previsione dell’art. 1, comma 6, della legge 23 agosto 2004, n. 243 (Norme in materia pensionistica e deleghe al Governo nel settore della previdenza pubblica, per il sostegno alla previdenza complementare e all’occupazione stabile e per il riordino degli enti di previdenza ed assistenza obbligatoria), in linea con quanto stabilito dall’art. 59, comma 9, della legge 27 dicembre 1997, n. 449 (Misure per la stabilizzazione della finanza pubblica), la cessazione dal servizio sarebbe potuta avvenire a decorrere dal 1° settembre (data di inizio dell’anno scolastico) dell’anno 2012 per coloro i quali, come la ricorrente, maturavano i requisiti necessari entro il 31 dicembre 2012 (sessanta anni di età e trentasei di contribuzione); che nell’anno 2011 si sono avute varie manovre correttive della finanza pubblica, che hanno fatto venire meno il diritto della lavoratrice al collocamento in pensione alla data prevista; che, a questo proposito, il remittente richiama l’art. 1, comma 21, del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148, che ha spostato di un anno in avanti la possibilità di essere collocati in pensione per coloro i quali maturavano i requisiti per il pensionamento con effetto dal 1° gennaio 2012; che l’art. 24, comma 3, del d.l. n. 201 del 2011, mentre ha fatto salvo il diritto al conseguimento della pensione secondo la normativa previgente per coloro i quali raggiungevano i requisiti entro il 31 dicembre 2011, ha completamente innovato il regime delle prestazioni previdenziali a decorrere dal 1° gennaio 2012, sicché la lavoratrice ricorrente non può più accedere alla pensione di anzianità, potendo solo aspirare all’ottenimento della pensione di vecchiaia, sulla base dei requisiti di cui ai commi 6 e 7 del censurato art. 24, oppure della pensione anticipata, secondo i requisiti dei commi 10 e 11 del medesimo articolo; che, in particolare, per le lavoratrici dipendenti del settore pubblico sono richiesti, a decorrere dal 1° gennaio 2012, requisiti di età e di contribuzione che la docente ricorrente non possiede, per cui la declaratoria di illegittimità costituzionale della norma impugnata «è l’unica strada percorribile per conseguire il riconoscimento del diritto affermato» In altre parole la Corte Costituzionale, come spesso accade, ha deciso di non decidere nello specifico ma esprimendosi solo sulla “forma” della sentenza e non sulla sostanza effettiva dell’ordinanza del Giudice del Lavoro di Siena. Ma soprattutto, secondo una prima sommaria lettura di quanto dice la suprema Corte, lascia inevasi sia il problema temporale della intrata in vigore della legge Fornero e sia quello della disparità di trattamento pensionistico fra pubblico e privato. Viene inoltre non considerato, e i lavoratori della scuola per questo sono molto contrariati, la questione delicatissima della specificità del personale della scuola che può contare solo su una finestra di uscita, corrispondente con la chiusura dell’anno scolastico. Il punto dunque torna al suo inizio e cioè alla politica che in molti incontri, nel corso di questi due anni (governo Monti e successivo Governo Letta) aveva riconosciuto questa penalizzazione, per cui tocca ad essa risolvere un marchingegno legale penalizzante. Per questo, sempre il prof Grasso tuona dal suo osservatorio: “Resta ancora da vedere, dopo questa sentenza, se alcune porte potranno aprirsi, soprattutto sul versante politico, o se invece si chiuderanno definitivamente per noi”.
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“Quota 96”: la Consulta non si esprime sul merito. Il parere del giudice
La Consulta dunque ha dichiarato inammissibile l’ordinanza del giudice del lavoro di Siena che aveva sollevato la legittimità costituzionale sulla richiesta di una docente di andare in pensione coi requisiti della legge Damiano che prevedeva le cosiddette “Quote”. Da una analisi approfondita della sentenza si evince, come sottolinea il prof Giuseppe Grasso nel testo che pubblcihiamo, che la suprema Corte non si esprime nel merito. A suffragio di quanto affermato anche il parere del giudice Roberto Amorosi
La Corte Costituzionale, in merito alla richiesta avanzata ad agosto 2012 con l’ordinanza di rimessione del giudice del lavoro di Siena per una ricorrente di Quota 96, rilevando «un’evidente incertezza della richiesta», adduce che non può pronunciarsi per una «sentenza additiva» e rigetta la questione di «legittimità costituzionale» dell’art. 24. In sostanza censura il modo in cui il giudice suddetto ha elaborato l’ordinanza, a suo dire formulata malamente e non priva di una certa contraddittorietà. Il giudice senese non avrebbe spiegato – e in ciò consisterebbe il suo torto – quale sarebbe stata l’utilità pratica dell’abrogazione della norma Fornero. Si sa che la Consulta, quando rileva questioni pregiudiziali, non entra mai nel merito delle questioni sollevate. L’ordinanza in questione, in particolare, secondo l’alta Corte, «presenta un petitum incerto» nella sua enunciazione poiché non chiarisce se alla stessa venga chiesta una pronuncia di illegittimità costituzionale che «cancelli integralmente la norma censurata» oppure una «pronuncia additiva» che la lasci in vigore ma «con le necessarie correzioni». La Consulta osserva poi che, «a prescindere dal dato obiettivo per cui la disposizione censurata è entrata in vigore prima che la ricorrente nel giudizio a quo maturasse il diritto al conseguimento della prestazione pensionistica», l’ordinanza del Tribunale ordinario di Siena non ha tenuto conto dell’anno in più previsto dal decreto legge di ferragosto del 2011, il n. 148, che aveva modificato la legge 449/97 posticipando di un anno il pensionamento dei lavoratori della scuola. La questione di legittimità costituzionale dell’art. 24 posta dal giudice senese viene pertanto giudicata, per queste ragioni di ordine strettamente formale, «manifestamente inammissibile». Si esime dall’intervenire nello specifico con qualsivoglia ragionamento esprimendosi solo sulla «forma» e non sulla «sostanza» dell’ordinanza; dichiara che le «è preclusa la possibilità di pronunciare sentenze additive di contenuto discrezionale»; lascia infine inevasi, purtroppo, sia il problema del dies ad quem, che tanto interessava i lavoratori della scuola interessati, sia quello della disparità di trattamento pensionistico fra settore pubblico e privato. Da quanto possiamo capire dietro le righe c’è forse la volontà di non decidere o, come dire, aggiungiamo noi, di lavarsi le mani su tale spinosa querelle. Non c’è in ogni caso, a nostro modesto avviso, alcuna bocciatura del diritto violato dei Quota 96 della scuola. La spiegazione finale porta la Consulta ad adottare una scelta diplomatica e salomonica che salva la legge Fornero da ogni attacco costituzionale schivando ogni effetto emulativo da parte di altri settori pubblici. Si attiene alla forma dell’ordinanza, vorremmo aggiungere, senza andare oltre di un millimetro. C’è da dire però che quel decreto n. 148 non ha mai trovato applicazione concreta nella legislazione italiana perché, nel frattempo, era intervenuta la legge Fornero a ridisegnare in toto l’assetto del sistema pensionistico italiano. Resta il fatto che la Consulta, al di là delle sue scelte, ha liquidato il tutto con una NON decisione di fatto. L’unica cosa buona che può derivarne per questi lavoratori beffati è che non si è trattato di una bocciatura della specificità del Comparto Scuola. Significa solo che la palla passa ora nelle mani della politica, se ha intenzione di sanare definitivamente quanto aggirato dalla Consulta e dalle varie Corti dei Conti. Il diritto a pensione è rimasto, se così può dirsi, nel limbo delle rivendicazioni inevase. Resta salvo lo spazio perché si applichi infine correttamente al Comparto Scuola la legge Fornero. Sulla questione della specificità della scuola, infatti, rimasta clamorosamente inevasa dal mondo della giustizia, grava una inspiegabile e gravissima inadempienza politica. C’è un solo modo per rintuzzare questa sentenza: esigere che la politica stessa sani definitivamente la questione. Giuseppe Grasso * * * La Corte non entra nel merito, perché rileva un aspetto dirimente che rende inutile l’esame della questione di legittimità costituzionale sollevata dal giudice di Siena. In pratica, secondo la Corte, anche se la disposizione in contestazione (art. 24, comma 3, DL 201/2011) venisse dichiarata incostituzionale, ve ne sarebbe comunque un’altra (l’art. 1, comma 21, del DL 138/2011) che preclude la possibilità del lavoratore di essere collocato a riposo alla data del 1 settembre 2012, disposizione che il giudice sarebbe chiamato comunque ad applicare e della cui legittimità egli evidentemente non dubita, visto che non ha impugnato tale ultima norma, limitandosi alla prima. Per di più, aggiunge la Consulta, non è nemmeno chiaro ciò a cui mira il giudice di rinvio perché da un lato chiede che venga introdotto nella norma censurata un meccanismo di gradualità in uscita, ferma restando la data di maturazione del diritto al pensionamento fissato dalla disposizione in contestazione (31.12.2011); dall’altro chiede che tale giorno venga spostato in avanti per i lavoratori della scuola, considerata la peculiarità del settore. E ciò, secondo la Corte, è contraddittorio, dà luogo ad incertezza e rappresenta perciò un motivo ulteriore di rigetto. Certo si può obiettare che la Corte pecca di cinismo, che il discorso è più complesso e che avrebbe richiesto un approccio diverso, che nel merito nei confronti del “Comitato Quota96” è stata commessa un’ingiustizia perché quando mancavano pochi mesi all’agognato pensionamento la Fornero ha cambiato le carte in tavola, spostando di colpo la data di conclusione del rapporto non di pochi giorni o mesi, ma di svariati anni e ciò senza preoccuparsi di prevedere una disciplina transitoria che graduasse l’entrata in vigore della nuova disciplina. Vi è da dire però che è lo stesso giudice di rinvio a non parlare di diritto soggettivo bensì di mera aspettativa ancorché legittima nutrita dai lavoratori pensionandi. E ciò fa la differenza perché se si fosse trattato di diritto soggettivo, come era da supporre inizialmente, le cose sarebbero andate diversamente e forse il giudice avrebbe dato ragione al “Comitato Q96” fin da subito, disapplicando nei loro confronti la norma in contestazione senza nemmeno porsi dubbi di legittimità. A questo punto però serve a poco dibattere, perché nessun giudice oserà più mettere in discussione la legittimità della disposizione in contestazione, mentre le sentenze della Corte costituzionale non sono impugnabili. In ogni caso ho sempre pensato, e lo penso tuttora, che il personale della scuola di “Quota 96” ha subito un’ingiustizia ma in questi casi, secondo me, bisogna cercare di essere pratici e quindi coordinarsi con il legale Roberto Amorosi
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Pensioni, a settembre andranno via in 17mila. Ma c’è poco da gioire
Rispetto al 2013 si registra un incremento del 23%, ma nel 2012 se ne andarono quasi il doppio di docenti e Ata. E nel 2007 il triplo. L’Anief torna a chiedere una deroga per i dipendenti della scuola rispetto alla “stretta” imposta con la riforma Fornero: il Governo Monti ha creato un meccanismo infernale, che entro qualche anno produrrà una quantità industriale di insegnanti ultra 60enni stanchi e demotivati.
Per la scuola quello di febbraio è il mese di cui si parla già di pensionamenti. Sono quelli che prenderanno corpo sei mesi dopo. E quest’anno si registra, a quanto risulta a “Repubblica.it”, il 23% in più di addii al servizio rispetto a quello passato: il settembre scorso andarono in pensione 10.860 insegnanti e 3.662 amministrativi, tecnici e ausiliari. Nell’estate del 2014 toccherà a 13.380 insegnante (2.520 in più) e 3.697 Ata (appena 35 in più).
Se si guarda al passato recente l’incremento, in effetti, c’è stato. Se invece si va a confrontare il dato degli attuali pensionamenti con quelli in po’ più indietro c’è poco da gioire. Solo due anni fa, nel 2012, se ne erano andati in oltre 30 mila. Se poi si va indietro cinque anni prima, il gap diventa enorme. Facendo crescere i rimpianti, per un turn over ormai sempre più ridotto.
“Per comprendere la modesta portata dei pensionamenti concessi da Viale Trastevere – sostiene l’Anief – basta prendere come riferimento quelli che si realizzarono nel 2007, quando furono più di 51mila le cessazioni di servizio dei dipendenti della scuola: praticamente il triplo di quelle che si concretizzeranno quest’anno. Si tratta di numeri eloquenti. Che dimostrano quello che l’Anief sostiene da quando è stata approvata la riforma Fornero attraverso il decreto legge n. 201, del 6 dicembre 2011, convertito con la legge n. 214 del 22 dicembre 2011: la scuola italiana doveva adottare la riforma pensionistica in modo graduale”.
Secondo Marcello Pacifico, presidente Anief e segretario organizzativo Confedir, è la conferma che “la scuola necessita di una deroga rispetto alle nuove norme che regolano l’uscita dal mondo del lavoro: il Parlamento italiano, durante il Governo Monti, ha creato un meccanismo infernale che entro qualche anno produrrà una quantità industriale di insegnanti ultra 60enni. Pensiamo, per un attimo alle maestre della materna, che si occupano di bambini di 3-4 anni. Come si fa a parlare di scuola di qualità in queste condizioni?”.
In mancanza di una modifica alle norme pensionistiche, il sindacato ritiene indispensabile dare la possibilità a chi ha svolto 25-30 anni di insegnamento di rimanere in servizio con ruoli alternativi a quelli della didattica frontale: un ocente con tanta esperienza alle spalle dovrebbe avere l’opportunità di attuare compiti diversificati.
“I docenti alle soglie della pensione - continua Pacifico – potrebbero essere impiegati come tutor, formatori o supervisori dei giovani docenti. Oppure come orientatore per gli studenti. Sono delle soluzioni, già praticate con fortuna in diversi Paesi, che permetterebbero ai docenti rimasti in servizio, loro malgrado, di poter mettere a disposizione la tanta esperienza accumulata negli anni a favore dei colleghi inesperti. Ma anche degli alunni, fornendogli quella assistenza in fase di scelta dei nuovi corsi, che risulterebbe decisiva per abbattere quell’abbandono scolastico che in Italia è cinque punti percentuali sopra la media Ue. Si darebbe infine di nuovo respiro al turn over”.
Quelle dell’Anief rimangono però delle proposte. Che molti addetti ai lavori condivideranno. La realtà però è ben’altra. E più si va avanti, più salgono il coefficiente relativo all’aspettativa di vita e l’età minima di pensionamento delle donne. Che nella scuola rappresentano oltre l’80% del personale. Se tanto mi dà tanto…
Tecnica della scuola
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Atteso per oggi il voto in commissione Bilancio sul DL per Quota 96
Oggi in Commissione Bilancio del Senato si riprenderà la discussione con il voto sul disegno di legge sulla Quota 96, proposta che ha come relatrice Barbara Saltamartini, vicepresidente della Commissione e relatrice di Ncd.
L'intento è sempre quello di cancellare l'errore materiale della legge Fornero sulla finestra d'uscita degli insegnanti nati nel 1952, che impedisce a questi 4.000 lavoratori circa di andare in pensione con i vecchi requisiti.
Due le proposte di legge finora presentate, poi unificate, per le quali il MEF ha sempre dichiarato di non avere la copertura finanziaria, circa 400 milioni di euro, drasticamente ridotti a 150 milioni, con lo slittamento del pagamento del TFR negli anni a seguire.
La Commissione sembrerebbe disposta a dare il suo parere positivo al provvedimento, nonostante le eventuali opposizioni da parte del Ministero dell'Economia. Passando, di fatto, a quest'ultimo la patata bollente. Insomma, si rischia un incidente diplomatico di non poca entità.
E' da un anno e mezzo che i docenti aspettano, oggi si attende che la politica faccia un passo avanti molto importante, sperando che non ci sia un ulteriore rinvio, come la scorsa settimana.
Rinvio, precisa l'On Ghizzoni sul proprio blog, causato della richiesta di fiducia del Governo sul decreto delle missioni militari.
Infatti il regolamento della Camera prevede che alla richiesta di fiducia corrisponda una sospensione di 24 ore di tutta l’attività parlamentare, con l’eccezione della discussione di decreti in scadenza.
Orizzontescuola